I ricercatori suggeriscono che, prima di dare una morte dolce, si tenti di dare una vita migliore.
Essere chiusi dentro se stessi, prigionieri di un corpo incapace di muoversi e di parlare. Doversi esprimere, in maniera limitata, con i movimenti degli occhi mentre le capacità cognitive rimangono intatte. Tutto questo succede a chi è affetto dalla sindrome Locked in (LIS), una malattia che può insorgere in seguito ad una lesione pontina o, assai più raramente, per una emorragia o per un tumore. La morbilità e la mortalità sono elevate, tuttavia è possibile il recupero parziale; il paziente necessita comunque di una presa in carico molto specializzata che include una psicoterapia di sostegno oltre alla necessaria fisioterapia. Per chi è in salute può essere un pensiero insopportabile. Eppure, stando ad uno studio guidato dal prof Steven Laureys del dipartimento di neurologia dell’Università di Liegi (Belgio) pubblicato on line su British Medical Journal, le persone affette dalla sindrome ‘Locked in’ non sarebbero poi così infelici come si potrebbe pensare e solo una piccolissima parte prende in considerazione la possibilità di porre fine alla propria vita. I ricercatori hanno sottoposto ad un questionario - validato per persone in questo specifiche condizioni - 168 membri dell’associazione francese per la sindrome di Locked-in relativamente alle loro condizioni e al vissuto emotivo, chiedendo anche un parere su ciò che concerne le problematiche del ‘fine vita’ come l’eutanasia.
Dei 168 pazienti interpellati solo 91 hanno risposto (il 54 per cento) e 26 sono stati esclusi per mancanza di dati sulla qualità della vita. Tra i 65 questionari validi le risposte erano così distribuite: 47 pazienti si sono detti felici mentre 18 infelici. Le cause più legate all’infelicità sono, secondo i risultati, l’ansia, l’insoddisfazione per l’immobilità che costringe a rinunciare alle attività sociali e ricreative e l’impossibilità di parlare.
A sorpresa, però, a dirsi più felici sono soprattutto coloro che convivono da più tempo con la malattia.
Riguardo alle tematiche di fine vita il 58 per cento dei pazienti ha dichiarato di non voler essere rianimato in caso di arresto cardiaco ma solo il 7 per cento, cioè 4 pazienti in tutto, hanno espresso il desiderio dell’eutanasia. Secondo le conclusioni tratte dai ricercatori i dati sottolineano la necessità di fare sforzi supplementari sulle cure palliative al fine di implementare le attività ricreative per i pazienti e anche, soprattutto nel primo periodo, sottolineano l’importanza di tenere in conto ed affrontare l’ansia nei pazienti aiutandoli ad accettare il drastico cambiamento della loro vita.
“A nostro avviso – concludono i ricercatori – non bisogna evitare le decisioni di fine vita ma queste richieste dovrebbero essere ritenute valide solo dopo che ai pazienti sono state date le possibilità di raggiungere uno stato costante di benessere soggettivo”. Si tratta di una ricerca che potrebbe far molto discutere anche in Italia dove ormai da tempo si dibatte su eutanasia e testamento biologico. Tuttavia, quanto concluso dai ricercatori, non è poi così lontano da quello che varie associazioni di malati, ad esempio alcune di quelle che rappresentano le persone affette da SLA, malattia per molti versi simile, sostengono da tempo. Il concetto di fondo è, infatti, che prima di pensare a dare una bella morte bisognerebbe cercare di rendere più vivibile possibile - se non proprio bella - la vita.
Seguici sui Social