SEUa: intervista ai dottori Francesco Emma ed Enrico Vidal

Cure personalizzate, assistenza sul territorio e supporto psicologico sono tra gli aspetti che possono migliorare di molto la qualità di vita di pazienti e familiari

La sindrome emolitico-uremica atipica (SEUa) è una rara microangiopatia trombotica, con coinvolgimento prevalentemente renale, che spesso presenta un esordio acuto e precoce. “Il numero esiguo di pazienti rende difficile disporre di dati solidi dal punto di vista epidemiologico, ma le informazioni tratte dal Registro Globale aHUS e dal Registro Italiano della Sindrome Emolitico-Uremica indicano che la malattia colpisce prevalentemente bambini e giovani adulti, con un picco di incidenza nella prima infanzia”, afferma il dottor Enrico Vidal, responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Nefrologia Pediatrica dell’Azienda Ospedale Università di Padova. Negli ultimi anni, tuttavia, la maggiore capacità diagnostica ha fatto sì che il numero di pazienti intercettati in età adulta sia in costante crescita. “Resta il fatto che, sebbene la SEUa non possa essere considerata una malattia prettamente pediatrica, dobbiamo essere preparati a gestire il paziente bambino”, sottolinea il dottor Francesco Emma, Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Nefrologia dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.

UNA MALATTIA COMPLESSA, ANCHE DAL PUNTO DI VISTA GENETICO

La sindrome emolitico-uremica atipica (SEUa) presenta un’eziopatogenesi complicata e le analisi molecolari risultano altrettanto impegnative”, spiega il dottor Emma. “Per la valutazione genetica dei pazienti con SEUa, al Bambino Gesù preferiamo appoggiarci all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Bergamo, eccellenza assoluta nel campo della genetica molecolare di questa malattia, nonostante il nostro laboratorio sia uno dei migliori in Italia”. Recenti studi hanno dimostrato che circa il 60% dei casi di sindrome emolitico-uremica atipica è associato ad anomalie genetiche del sistema del complemento, in particolare della cosiddetta “via alternativa”, una delle tre ‘strade’ in cui si articola questo complesso meccanismo di difesa che fa parte della nostra immunità innata.

Quando correttamente funzionante, il sistema del complemento – composto da più di 60 proteine, di cui circa 30 circolanti – ci difende dalle aggressioni di virus e batteri, eliminando corpi estranei e tessuti danneggiati. La sua azione è guidata da alcune proteine regolatrici che evitano danni alle cellule sane del nostro organismo identificandole come ‘intoccabili’. Nella SEUa, la mancanza di alcune di queste proteine fa sì che il complemento bersagli i vasi sanguigni, con conseguente distaccamento delle cellule endoteliali che ricoprono la superfice interna dei capillari, adesione piastrinica e formazione di microtrombi. Questi coaguli di sangue, a loro volta, ostacolano la circolazione ematica, distruggono fisicamente i globuli rossi che li attraversano (anemia emolitica meccanica) e innescano un processo ischemico a carico di vari organi: principalmente reni, ma anche cervello, fegato, cuore, polmoni e intestino.

DALLA DIAGNOSI ALLA TERAPIA

Il percorso diagnostico della SEUa inizia con un’accurata valutazione clinica e con la formulazione di un’ipotesi che viene poi suffragata dagli esami di laboratorio. “Soprattutto nei bambini - sottolinea il dott. Vidal - è necessario distinguere tra le due forme di sindrome emolitico-uremica, ossi quella tipica e quella atipica. La SEU tipica, dovuta ad infezioni gastrointestinali da batteri di Escherichia Coli che sono in grado di produrre verocitotossine, è infatti molto più frequente della SEUa nel bambino”. Inoltre, è necessario escludere che l’anemia emolitica abbia una base autoimmune o sia causata da porpora trombotica trombocitopenica.

Una diagnosi di SEUa corretta e tempestiva permette di iniziare subito il trattamento, riducendo il rischio di possibili complicanze”, prosegue Vidal. “In passato la malattia era gravata da un significativo tasso di mortalità e da un’evoluzione pressoché inesorabile verso l’insufficienza renale cronica, con conseguente necessità di dialisi e trapianto”. Da questo punto di vista, l’avvento di farmaci come eculizumab e ravulizumab, inibitori del complemento, ha rappresentato una vera e propria rivoluzione terapeutica: grazie a questi medicinali, infatti, è oggi possibile arrestare il processo ischemico provocato dalla SEUa e prevenire il danno d’organo associato. “Se avviato nelle fasi iniziali della malattia, il trattamento riduce drasticamente il rischio di arrivare all’insufficienza renale terminale”, conferma il dottor Vidal. “L’andamento della terapia viene poi monitorato grazie al dosaggio di due biomarcatori: il C5b-9 e il CH50 (complemento totale). In particolare, C5b-9 [test di deposizione endoteliale del complesso terminale del complemento, N.d.R.] rappresenta un valido aiuto per controllare l’attività della malattia e calibrare il trattamento”. Il monitoraggio di questi due marcatori, inoltre, permette di scongiurare il rischio di recidiva della patologia nei pazienti sottoposti a trapianto renale.

APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE E SUPPORTO PSICOLOGICO

“La compromissione renale rappresenta sicuramente una delle manifestazioni distintive della SEUa, ma non l’unica: il coinvolgimento sistemico della malattia è evidente soprattutto nella fase acuta”, spiega il dottor Emma. “In una minoranza dei casi più critici, a esordio precoce e severo, la SEUa può portare non solo all’insufficienza renale terminale, ma anche a una serie di gravi complicanze (emorragia polmonare, ictus cerebrale, coma, ecc.) capaci di mettere seriamente a repentaglio la vita del paziente. In queste circostanze emergenziali, una presa in carico globale e multidisciplinare da parte di diversi specialisti è fondamentale e può fare la differenza. Una volta rientrata la fase acuta, però, la malattia torna a essere di competenza del nefrologo perché, mentre gli altri disturbi generalmente si risolvono, la sintomatologia renale persiste”.

Essendo una malattia cronica, la SEUa comporta un carico emotivo e psicologico che perdura nel tempo, così come implica molti cambiamenti nella vita quotidiana delle persone che ne sono affette. “Per questo motivo, mentre dal punto di vista clinico i piccoli pazienti vengono monitorati quasi esclusivamente dal nefrologo, dal punto di vista psico-sociale hanno particolarmente bisogno di essere seguiti da altre figure professionali”, spiega il dott. Vidal. “Oggi, praticamente tutti i centri di nefrologia pediatrica offrono a questi bambini e alle loro famiglie un supporto psicologico, assistenza sociale e un servizio di nutrizione pediatrica”.

IL MONITORAGGIO DEI PAZIENTI E L’IMPORTANZA DELL’ASSISTENZA TERRITORIALE

In generale, i bambini con SEUa vanno costantemente vigilati, sia dai clinici che dalle rispettive famiglie, soprattutto perché frequentemente esposti alle infezioni, che rappresentano un potente fattore scatenate per la riattivazione del complemento. “Prevedere una possibile riacutizzazione della malattia non è sempre un compito facile”, sottolinea il dott. Vidal. “Uno dei parametri che si sono dimostrati più sensibili nell’anticipare una ricaduta è l’emoglobinuria, ovvero la presenza di sangue nelle urine. Per questo motivo, in alcune situazioni può essere indicato il monitoraggio domiciliare tramite stick per urine”.

In una patologia cronica come la SEUa, il monitoraggio a lungo termine dei pazienti è quindi cruciale, ma non sempre è possibile strutturare un percorso di follow-up nei centri di riferimento dove si è ricevuta la diagnosi. “Più dell’80% dei pazienti pediatrici diagnosticati al Bambino Gesù, ad esempio, non abita a Roma ma proviene da tutta Italia, soprattutto dal Centro-Sud”, dichiara il dottor Emma. “In molti casi, quindi, è impensabile chiedere alle famiglie di tornare qui regolarmente per il monitoraggio. I viaggi possono essere lunghi, faticosi e impegnativi, anche dal punto di vista economico. Per questo motivo, al Bambino Gesù optiamo per un approccio integrato che possa garantire continuità assistenziale ai pazienti direttamente sul territorio, grazie a una stretta collaborazione con gli ospedali competenti più vicini al loro comune di residenza. In generale, in ciascuno di questi centri lavorano clinici esperti che conosciamo e con i quali prendiamo direttamente i necessari accordi, caso per caso. Infatti, nelle persone affette da SEUa il recupero della funzione renale è variabile, così come il rischio di recidiva della malattia: questo presuppone la necessità di stabilire un percorso di cura individualizzato che va concordato con chi prenderà in carico il singolo paziente sul territorio”. Si instaura così una rete informale, fatta di clinici, associazioni e personale sanitario, che all’occorrenza è in grado di sostenere i piccoli pazienti affetti da SEUa nel trasferimento dal centro che ha effettuato la diagnosi all’ospedale locale.

LA TRANSIZIONE DALLA NEFROLOGIA PEDIATRICA A QUELLA DELL’ADULTO

Un’altra delicata fase di passaggio che va accuratamente programmata è quella relativa alla transizione del paziente dalla pediatria alla medicina dell’adulto. Si tratta di un sentiero impervio per molte malattie, tanto che numerosi ospedali stanno cercando di strutturare dei percorsi specifici di accompagnamento o hanno istituito nuove figure professionali che hanno il compito di coordinare questo passaggio e di guidare i pazienti che si trovano ad affrontarlo. “Ad esempio, all’Azienda Ospedale Università di Padova sono stati creati dei tavoli di lavoro per permettere ai professionisti di confrontarsi sulla tematica della transizione, soprattutto per le condizioni più frequenti come il trapianto di rene o le sindromi nefrosiche”, racconta il dott. Vidal. “Per le patologie rare, come la sindrome emolitico-uremica atipica, spesso il confronto avviene in maniera meno sistematizzata e formale: in pratica si trova un interlocutore competente nel mondo dell’adulto e si spiega a voce la situazione del singolo paziente”.

In generale, per quanto riguarda la SEUa non sembrano finora evidenti particolari criticità nella transizione dalla nefrologia pediatrica a quella dell’adulto”, conferma il dottor Emma. Spesso, infatti, si tratta di pazienti che hanno iniziato da bambini il loro percorso di cura - che prevede periodiche infusioni di inibitori del complemento - e che lo proseguono, senza sostanziali differenze, anche in età adulta. “Ovviamente il discorso cambia a seconda della gravità della malattia e della funzionalità renale residua”, puntualizza Emma. “I pazienti che seguiamo al Bambino Gesù e che sono stati inseriti in lista per il trapianto di rene prima dei 18 anni effettueranno comunque l’intervento presso il nostro centro pediatrico, anche se nel frattempo sono diventanti maggiorenni”.

Un aspetto da tenere in considerazione è che, in ogni caso, il passaggio di una persona dall’età pediatrica a quella adulta non avviene all’improvviso, ma è un processo graduale di acquisizione di consapevolezza e indipendenza. “Quando si ha a che fare con pazienti bambini, per un medico è normale interfacciarsi con i genitori, perché in età pediatrica la gestione della malattia ha necessariamente una ‘dimensione più familiare’”, spiega il dott. Vidal. “A volte, però, accade che i nefrologi pediatri continuino a rivolgersi ai familiari anche quando il paziente con SEUa è ormai un ragazzo e sarebbe perfettamente in grado di capire la sua condizione. Questo lo priva della possibilità di crescere, di prendere consapevolezza della propria malattia e di iniziare ad assumersi la responsabilità della terapia. A mio parere, la fase più importante della transizione non è tanto il momento vero e proprio in cui si attua questo passaggio, quanto piuttosto il periodo immediatamente precedente, in cui il ragazzo acquisisce quelle competenze e autonomie che gli permetteranno di saper gestire la propria patologia nel mondo della medicina per adulti. Interloquire con l’adolescente non appena sia in grado di comprendere le implicazioni della sua condizione è un aspetto propedeutico alla vera e propria transizione, di cui tutti i nefrologi pediatri dovrebbero tener conto”.

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