Paolo Chiandotto (presidente Progetto Alice): “Parliamo di una patologia grave ma oggi abbiamo a disposizione terapie efficaci, purché vengano usate in modo tempestivo e appropriato”
“Capacità e possibilità” è il tema della nona Giornata annuale di sensibilizzazione sulla sindrome emolitico-uremica atipica (SEUa). “Capacità” di dare voce ai pazienti e di donare loro nuove speranze e “possibilità” future: questi sono anche i capisaldi dell’instancabile lavoro dell’associazione italiana Progetto Alice che, da quasi vent’anni, si occupa di sostenere le persone affette da sindrome emolitico-uremica (SEU), aumentare la consapevolezza e la conoscenza della patologia, finanziare la ricerca di base e le sperimentazioni cliniche e promuovere iniziative di supporto socio-sanitario a favore di enti pubblici e privati che si occupino della presa in carico dei pazienti. “Un progetto ambizioso - afferma Paolo Chiandotto, fondatore e presidente dell’Associazione - che nasce dall’odissea vissuta dalla mia famiglia e dal desiderio di dare a tutte le persone con SEU i presupposti per un accesso equo alle cure”.
L’ASSOCIAZIONE
Progetto Alice nasce in risposta al bisogno di concretezza che le persone affette da SEU e le loro famiglie sperimentano fin dal momento in cui si affaccia il sospetto della malattia. Fondata diciannove anni fa da Paolo Chiandotto e sua moglie, dopo che la loro figlia aveva ricevuto la diagnosi di SEU, Progetto Alice è un’associazione 'semplice' ma competente che, grazie a un sito documentato e aggiornato e a un servizio di help-line sempre accessibile, accompagna i pazienti e le loro famiglie con professionalità e impegno.
LA PATOLOGIA
“Finché non è stata diagnostica a nostra figlia Alice, io e mia moglie non avevamo mai sentito parlare della sindrome emolitico-uremica”, afferma Paolo Chiandotto. La SEU, infatti, è una malattia rara, la cui prevalenza, nella sua forma atipica, è pari a circa 1-9 casi ogni 100.000 persone (Fonte: Orphanet). Alla base di questo disturbo vi è la formazione di piccoli accumuli di piastrine e di una glicoproteina nota come fattore di von Willebrand (VWF), accumuli che si depositano diffusamente nei piccoli vasi sanguigni creando ostruzioni (trombi) che ostacolano il passaggio del sangue e danneggiano meccanicamente le piastrine e i globuli rossi che li attraversano, con conseguente grave trombocitopenia e anemia emolitica. Molti sono gli organi interessati dalla formazione di questi microtrombi ma reni, cervello e cuore sono quelli che riportano i danni maggiori. L'età di esordio della malattia è molto variabile, dai neonati ai giovani adulti. “Oggi sappiamo che, soprattutto nella sua forma atipica, non è più considerabile una patologia dell’infanzia. Colpisce soprattutto gli adulti, al di sotto dei cinquant’anni”, afferma Paolo Chiandotto.
Esistono, infatti, due tipi di sindrome emolitico-uremica. “La forma tipica (SEUt) è tradizionalmente considerata la più diffusa, ma sarebbe necessaria un’indagine epidemiologica più approfondita per poterlo affermare con certezza”, precisa il presidente di Progetto Alice. Solitamente preceduta da un grave episodio di enterite causato da alcuni ceppi di Shigella dysenteriae o Escherichia coli, colpisce principalmente i bambini ed è tra le principali cause di insufficienza renale acuta nei primi cinque anni di vita. Gli enterobatteri Shigella dysenteriae ed Escherichia coli producono una tossina (shiga-tossina o verocitotossina) che, dopo aver compromesso la parete intestinale, è in grado di entrare nel circolo ematico danneggiando il tessuto endoteliale che riveste i vasi sanguigni. I sintomi della SEUt iniziano a manifestarsi a distanza di una o due settimane dall’enterite prodromica e comprendono astenia, pallore, irritabilità, letargia, oliguria (produzione di urina inferiore alla norma) e anemia. “La forma atipica (SEUa) rappresenta almeno il 40% dei casi di sindrome emolitico-uremica ed è generalmente più severa e recidivante della forma tipica”, spiega Paolo Chiandotto. Nella maggior parte dei casi, la patologia è causata da mutazioni a carico dei geni che codificano per le proteine coinvolte nella via alternativa del sistema del complemento, un elemento chiave del sistema immunitario umano. Esiste anche una forma acquisita di SEUa, correlata alla presenza di anticorpi anti-fattore H.
UN CENTRO PER LA CURA E LO STUDIO DELLA MALATTIA
“La SEU è una patologia complessa e multifattoriale”, spiega il presidente di Progetto Alice. “Vista la sua rarità spesso gli stessi clinici non ne hanno una conoscenza approfondita. Questo è un problema: se non curata tempestivamente, infatti, può provocare danni irreparabili. Per questo motivo, sostenere e finanziare la nascita di un centro di riferimento per la malattia è stato il nostro primo obiettivo. Era necessario creare un luogo dove potessero convergere tutti i pazienti affetti da SEU, tipica e atipica. Il Centro per la Cura e lo Studio della Sindrome Emolitico-Uremica della Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, di cui è responsabile il dottor Gianluigi Ardissino, è un centro altamente specializzato, con professionisti dotati di esperienza e competenza in grado di affrontare al meglio ogni aspetto della patologia”.
NECESSARI PROTOCOLLI DI CURA CONDIVISI A LIVELLO NAZIONALE
“Dai racconti dei pazienti e dei loro familiari, purtroppo, abbiamo scoperto che solo pochi centri in Italia sono in grado di individuare e trattare tempestivamente e correttamente la SEU”, racconta con amarezza Chiandotto. “La malattia è rara e, perciò, poco conosciuta. Statisticamente è improbabile che un nefrologo di un qualunque ospedale di provincia si imbatta in un caso di SEU più di una o due volte all’anno. Come in tutte le malattie rare, anche i pazienti affetti da SEU sono pochi e fare rete è una necessità, non un’opzione. L’esistenza di PDTA (Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali) formulati a livello regionale o, addirittura, da singole aziende ospedaliere, frammenta le competenze ed espone i pazienti al rischio di incappare in forme inappropriate di assistenza, dettate proprio dalla mancanza di protocolli che siano condivisi a livello nazionale. Basti pensare ai casi in cui, fino a poco tempo fa, veniva erroneamente consigliata l’asportazione di entrambi i reni (che porta alla dialisi cronica), il trapianto combinato rene-fegato (il cui rigetto può essere fatale), l’infusione di piastrine (che aggrava la malattia) o la terapia cortisonica (completamente inutile), oppure veniva sconsigliato il trapianto di rene, che invece, grazie alle nuove terapie disponibili, rappresenta una valida opzione”.
L’IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECOCE
“Oggi, finalmente, abbiamo a disposizione strumenti terapeutici efficaci per la sindrome emolitico-uremica, purché vengano usati in modo appropriato e tempestivo, e purché la diagnosi sia quanto più possibile precoce”, afferma risoluto Paolo Chiandotto. Nel caso della sindrome emolitico-uremica atipica, il sospetto diagnostico deve venire in presenza di microangiopatia trombotica con interessamento renale, e attraverso l’esclusione delle principali patologie che sono caratterizzate da un quadro clinico simile a quello della patologia (ad esempio SEUt o porpora trombotica trombocitopenica). La conferma diagnostica può giungere da analisi genetiche mirate, da test di funzionalità delle proteine del sistema del complemento e dalla ricerca di anticorpi anti-fattore H. “Anche qui, però, ci sono delle criticità: non tutti gli ospedali, infatti, sono in grado di eseguire questo tipo di test. Ad esempio, in Lombardia l’indagine genetica viene fatta solo a Milano e a Bergamo”, sottolinea il presidente di Progetto Alice. “L’aspetto deplorevole della questione è che, molte volte, a viaggiare non sono i campioni di sangue o di feci ma i pazienti stessi, che devono intraprendere tragitti lunghi e faticosi”.
Per anni, il trattamento standard della sindrome emolitico-uremica atipica è stato la plasmaterapia, mai veramente efficace e oggi del tutto obsoleta. “In alcuni casi viene proposta ancora adesso, forse per via della più facile reperibilità e del costo inferiore, anche se sappiamo che oggi il trattamento di prima linea per la SEUa prevede la somministrazione del farmaco eculizumab [un anticorpo monoclonale che blocca l’attivazione incontrollata del sistema del complemento, N.d.R.]”.
UN TRATTAMENTO PERSONALIZZATO
Presso il Centro per la Cura e lo Studio della Sindrome Emolitico-Uremica della Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano è stato sperimentato un innovativo programma di trattamento con eculizumab. La posologia di questo farmaco prevede una somministrazione endovenosa ogni 14 giorni. Nel corso di questa sperimentazione, invece, l’intervallo tra le dosi è stato regolato ad personam, sulla base delle caratteristiche genetiche e sierologiche dei pazienti e misurando l’attività della via classica del complemento (CCP) e i livelli circolanti di eculizumab. “I risultati sono stati sorprendenti”, afferma Paolo Chiandotto. “La maggioranza dei pazienti aveva ancora il sistema del complemento inibito dopo 21 giorni dalla somministrazione del farmaco, alcuni dopo 28. Mia figlia è arrivata al 31° giorno. Ciò significa medesima efficacia di trattamento con meno effetti collaterali, meno viaggi in ospedale per i pazienti, meno ‘buchi nelle vene’ e un consistente risparmio economico: solo nel caso di mia figlia, 13 buchi in meno all’anno. Con questa modalità di somministrazione, solo per Alice, in 9 anni di trapianto la sanità pubblica ha potuto risparmiare una somma considerevole e mia figlia ha potuto evitare 117 infusioni endovenose e 117 viaggi a Milano”.
NUOVE OPZIONI TERAPEUTICHE
Recentemente, oltre all’eculizumab, è stato approvato un nuovo farmaco per il trattamento della SEU: il ravulizumab, un inibitore della proteina C5 del complemento a lunga durata d’azione. “Mia figlia Alice inizierà a giorni la terapia con questo nuovo anticorpo monoclonale”, racconta Paolo Chiandotto. “È emozionata. Per lei sarà un ulteriore miglioramento della qualità della vita. Nel corso dei suoi diciannove anni, infatti, è stata sottoposta a dialisi peritoneale notturna per almeno sei anni e ha subito due trapianti di rene. Con eculizumab la sua quotidianità era già migliorata considerevolmente: aveva ricominciato a frequentare la scuola e la sua vita non era più legata a doppio filo con l’ospedale. Adesso ravulizumab, che può essere somministrato ogni otto settimane, allunga ulteriormente la distanza tra le dosi, rendendola sempre più indipendente. Alice ha vissuto sulla sua pelle ogni avanzamento terapeutico. Alla luce di tutto questo, il tema della nona Giornata annuale di sensibilizzazione sulla SEUa, “Capacità e possibilità”, diventa quanto mai profetico”.
Seguici sui Social