EPN: il punto con la dottoressa Iori

Dott.ssa Anna Paola Iori (Policlinico Umberto I di Roma): “Oggi, con nuovi farmaci a disposizione e altri in via di sviluppo, la vera sfida è la medicina personalizzata”

Fino a circa quindici anni fa una diagnosi di emoglobinuria parossistica notturna (EPN) si portava dietro un carico di insicurezza che andava ben oltre la normale preoccupazione dovuta all’individuazione della patologia. In assenza di terapie efficaci, infatti, l’aumentato rischio trombotico - principale causa di decesso nelle persone affette da EPN - generava dei pazienti un senso di incertezza, che rendeva ancora più dura la convivenza con questa rara malattia del sangue. “L’avvento dei farmaci inibitori del complemento ha operato una vera e propria rivoluzione terapeutica, stravolgendo radicalmente la storia naturale dell’EPN e riportando i tassi di sopravvivenza a valori sovrapponibili a quelli della popolazione generale”, afferma la Dott.ssa Anna Paola Iori, Dirigente Medico presso la Divisione di Ematologia del Policlinico Umberto I di Roma. “Le innovazioni, però, non sono ancora finite: presto arriveranno nuovi farmaci in grado di migliorare ulteriormente la risposta clinica e la qualità della vita dei nostri pazienti”.

LA PATOLOGIA E IL SISTEMA DEL COMPLEMENTO

L’emoglobinuria parossistica notturna è una rara malattia del sangue caratterizzata da anemia emolitica, trombosi e insufficienza del midollo osseo. Nell’EPN, a causa di una mutazione nel gene PIGA, le cellule staminali ematopoietiche (progenitrici delle cellule del sangue) producono globuli rossi, globuli bianchi e piastrine ‘difettosi’. In particolare, i globuli rossi, indeboliti dall’assenza di alcune proteine di membrana, vengono bersagliati e distrutti dal sistema del complemento, il meccanismo di difesa innato del nostro organismo.

Il sistema del complemento, quindi, pur funzionando correttamente, diventa il principale responsabile della patologia e gioca un ruolo centrale nello sviluppo della sintomatologia associata: fatigue, dolore addominale, toracico e lombare, dispnea, astenia, aumentato rischio di eventi trombotici e di insufficienza renale. “L’EPN non è una malattia del complemento – afferma la Dott.ssa Iori – ma è su di esso che occorre agire per poter ridurre gli eventi di emolisi, ossia di distruzione dei globuli rossi”.

I FARMACI DISPONIBILI

Mi occupo di EPN dagli anni ‘90”, racconta la Dirigente del Policlinico Umberto I. “In quegli anni non c’era nessun farmaco che potesse effettivamente controllare la malattia”. Si procedeva con una terapia cosiddetta “di supporto”, che prevedeva l’utilizzo di farmaci anticoagulanti, trasfusioni, eritropoietina e, a volte, steroidi, quasi sempre inutili se non addirittura dannosi per gli effetti collaterali. L’unico trattamento che poteva, e può tuttora, curare definitivamente questi pazienti è il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche, procedura che tuttavia presenta un elevato rischio di mortalità. “Gli inibitori del complemento hanno completamente cambiato la storia naturale di questa patologia e i pazienti di oggi hanno un’aspettativa di vita sovrapponibile a quella della popolazione generale”, spiega la Dott.ssa Iori. Il primo farmaco di questa categoria a entrare in commercio, nel 2007, è stato eculizumab, anticorpo monoclonale ricombinante umanizzato che si lega alla proteina C5 inibendo, così, l’attivazione della porzione terminale della cascata del complemento e la conseguente distruzione dei globuli rossi. Gli studi sono concordi nell’affermare che eculizumab, con somministrazioni endovenose ogni due settimane, permette un immediato e sostenuto controllo dell’emolisi intravascolare nei pazienti affetti da EPN, con una significativa riduzione dell’anemia, della necessità trasfusionale e degli eventi trombotici, senza particolari effetti collaterali e senza influenzare l’emopoiesi all’interno del midollo osseo. “Eculizumab è un grandissimo successo terapeutico, che ha aperto la strada a nuove possibilità: ad esempio, oggi, per una giovane donna affetta da EPN è possibile programmare una gravidanza, cosa che fino al 2007 era impensabile per l’elevato rischio trombotico”, afferma la Dott.ssa Iori.

Negli anni successivi eculizumab è stato ingegnerizzato per aumentarne l’emivita. Il farmaco risultante, chiamato ravulizumab, permette una somministrazione ogni otto settimane e un dosaggio variabile e adattabile al peso del paziente. “Rispetto alla dose programmata ogni due settimane di eculizumab, questa nuova molecola rappresenta un grosso passo avanti per il paziente, in termini di qualità della vita e di indipendenza dagli accessi ospedalieri”, spiega la Dott.ssa Iori. La molecola, tuttavia, non si limita a essere ‘più comoda’: rispetto a eculizumab presenta anche risultati migliori in termini di riduzione degli eventi emolitici in corso di trattamento. Queste crisi emolitiche, che si verificano durante la terapia con gli inibitori del complemento, sono denominate “breakthrought hemolysis” e sono principalmente imputabili a due fattori: inadeguato livello plasmatico del farmaco dovuto a un dosaggio insufficiente (breakthrought hemolysis farmacocinetica) oppure presenza concomitante di condizioni che attivano il complemento (breakthrought hemolysis farmacodinamica), come infezioni, traumi, interventi chirurgici, gravidanze o sbalzi ormonali. “Ravulizumab è in grado di ridurre gli episodi di breakthrought hemolysis farmacocinetica, mantenendo livelli plasmatici del farmaco più costanti e sostenuti nel tempo”, afferma la Dirigente della Divisione di Ematologia del Policlinico Umberto I.

“Oltre alla breakthrought hemolysis, però, ci sono altri fattori di cui bisogna tenere conto e ai quali la ricerca scientifica sta cercando di rispondere mettendo a punto nuove molecole”. Esiste infatti una piccola percentuale di pazienti, soprattutto nelle popolazioni asiatiche, che, a causa di una specifica alterazione genetica, non risponde bene alla terapia con eculizumab o ravulizumab. Inoltre, questi due farmaci, pur garantendo una buona diminuzione dell’emolisi intravascolare, possono causare emolisi extravascolare. Infatti, il blocco della cascata del complemento ‘a valle’ del fattore C5 lascia inalterata la porzione di cascata che è ‘a monte’ della stessa proteina C5. “Il fattore C3 del complemento, pertanto, può ancora essere attivato e depositarsi (nella sua forma C3b) sulla superficie delle emazie, dando luogo a un altro tipo di emolisi, quella extravascolare, dovuta al sequestro del complesso globulo rosso/C3b nella milza e nel fegato, dove viene distrutto a opera dei macrofagi”, spiega la Dott.ssa Iori.

Per rispondere a queste esigenze negli ultimi anni è stato sperimentato e approvato, anche in Italia, il farmaco pegcetacoplan: una nuova molecola che, agendo sul fattore C3 del complemento è in grado di controllare sia l’emolisi intravascolare che quella extravascolare C3-mediata. Pegcetacoplan riduce efficacemente l’anemia emolitica, permettendo al paziente di mantenere a lungo livelli adeguati di emoglobina nel sangue, diminuendo anche la fatigue, che rappresenta uno dei sintomi più invalidanti nell’EPN. Inoltre, grazie all’ottima solubilità, questo farmaco viene somministrato sottocute: modalità che permette l’auto-infusione a domicilio e, quindi, un ulteriore beneficio anche in termini di qualità della vita. Tuttavia, anche pegcetacoplan non elimina del tutto i casi di breakthrought hemolysis.

“In generale – continua la Dott.ssa Iori – possiamo affermare che l’avvento degli inibitori del complemento ha aperto una nuova era nella cura dell’emoglobinuria parossistica notturna. Tuttavia, con questo tipo di farmaci vanno prese alcune precauzioni”. L’inibizione del sistema del complemento, che rappresenta la nostra barriera naturale di difesa dai patogeni, comporta un aumento del rischio di incorrere in infezioni, soprattutto ad opera dei batteri cosiddetti “capsulati”: Neisseria meningitidis (meningococco) di tipo A, C, W, Y e B, Streptococcus pneumoniae (pneumococco) ed Haemophilus influenzae di tipo B. “Per questa ragione, tutti i pazienti trattati con inibitori del complemento devono seguire una rigorosa profilassi vaccinale ed essere educati al tempestivo riconoscimento dei primi sintomi di infezione, al fine di evitare complicanze”.

NUOVE TERAPIE IN ARRIVO

Nonostante i considerevoli risultati ottenuti con queste nuove molecole – drastica riduzione dell’emolisi, dell’insorgenza di trombosi, del rischio di insufficienza renale e di altre complicanze – nella EPN permangono ancora alcuni bisogni clinici insoddisfatti. La ricerca, quindi, continua ad andare avanti. “Di recente, ad esempio, è stato approvato dalla Commissione Europea (CE) il farmaco iptacopan come prima monoterapia orale per il trattamento dei pazienti adulti affetti da EPN”, afferma la Dott.ssa Iori. Si tratta di un inibitore del fattore B del complemento che, negli studi registrativi condotti su pazienti mai trattati in precedenza, o già in terapia con inibitori di C5, si è mostrato efficace in termini di diminuzione dell’anemia residua e di innalzamento dei livelli plasmatici di emoglobina.

“Una molecola in fase finale di sperimentazione è danicopan”, afferma Anna Paola Iori. “Anch’essa somministrabile per via orale, agisce sul fattore D del complemento, permettendo il blocco della cascata complementare a monte del C3”. Anche in questo caso i risultati sono promettenti: aumento duraturo e sostenuto dell’emoglobina, indipendenza trasfusionale e riduzione della fatigue. Tuttavia, vi sono delle criticità: bloccare il complemento nella zona prossimale permette di ridurre maggiormente l’emolisi ma lascia in circolo una grande quantità di emazie malate. Ipoteticamente, quindi, non si può escludere la possibilità di emolisi massive, soprattutto in caso di inadeguato livello plasmatico del farmaco.

Risultati positivi, infine, provengono anche dagli studi clinici condotti sul farmaco crovalimab, un nuovo anticorpo monoclonale anti-C5 riciclante sperimentale, somministrabile con iniezione sottocutanea ogni quattro settimane, che permette di superare l’ostacolo delle varianti genetiche che, nelle popolazioni asiatiche, impediscono il legame del farmaco con il fattore C5.

“Avere a disposizione diverse molecole per il trattamento di una singola patologia è un considerevole vantaggio in termini terapeutici, ma apre la porta a nuove sfide”, conclude la Dott.ssa Iori. “La possibilità di scelta, infatti, rende necessario puntare verso una medicina personalizzata, ‘intelligente’, ponderata sulle caratteristiche del singolo paziente”.

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