Dott.ssa Erika Morsia (Ancona): “Una volta individuata la patologia è necessario procedere con la stadiazione mediante la tecnica della citofluorimetria”
Le malattie della cute sono primariamente accostate a manifestazioni di disagio sociale e di imbarazzo nei confronti di quanti notano i segni sulla pelle: croste, placche e forme di desquamazione di cui il paziente si vergogna e che tende a nascondere. Peggio ancora è quando a queste lesioni cutanee non si attribuisce la considerazione che meritano, specie nel caso di patologie come il linfoma cutaneo a cellule T (CTCL), una forma tumorale caratterizzata da sintomi di vario tipo ma contraddistinta, nella maggior parte dei casi, da eruzione cutanee dovute dalla proliferazione dei linfociti T in certe aree della pelle. Sebbene il CTCL non debba essere sottovalutato, può accadere che nei medici e nei pazienti il sospetto di malattia nasca quando ormai la lesione è già più avanzata, mentre l’individuazione tempestiva della malattia è di fondamentale importanza.
“Gli ultimi dati a nostra disposizione indicano che nelle forme precoci di malattia - che comunque rappresentano circa l’80% dei casi - il tempo mediano dalla comparsa delle lesioni alla diagnosi di malattia è di circa 21 mesi”, afferma la dott.ssa Erika Morsia, ematologa e ricercatrice all’Università Politecnica delle Marche di Ancona. “È un intervallo di tempo inaccettabilmente elevato a cui contribuisce la scarsità di medici esperti della malattia. Inoltre, il CTCL si presenta spesso con la comparsa sulla cute di chiazze/placche eritematose facili da confondere con i segni di altri disturbi dermatologici”. Questo particolare aspetto accomuna varie patologie oncologiche: in presenza di chiazze o placche sulla pelle di cui non si conosce l’origine è bene non esitare a chiedere un consulto dermatologico, poiché la spiegazione potrebbe risiedere in un disturbo che va oltre la superficie della cute e che, come il CTCL, si accompagna a problematiche interne di natura ematologica.
“La diagnosi di linfoma cutaneo a cellule T è innanzitutto istologica e riconosce un ruolo cruciale all’anatomo-patologo, capace di identificare i peculiari tratti di infiltrazione dei linfociti che confermano la presenza del tumore”, prosegue Morsia, impegnata nella ricerca scientifica sul CTCL in quanto parte attiva del Cutaneous Lymphoma Tumor Group della European Organization for Research and Treatment of Cancer (EORTC). “Grazie a metodiche di analisi molecolare siamo in grado di confermare la clonalità dei linfociti T e fare una diagnosi differenziale rispetto alle condizioni infiammatorie cutanee in cui l’infiltrato linfocitario non è di natura clonale”. Tale informazione va chiaramente riportata sul referto istologico che l’ematologo si troverà a valutare al momento di fare la stadiazione della malattia, una procedura indispensabile per dedurre informazioni prognostiche ed impostare la corretta terapia.
La ricerca delle cellule T clonali nel sangue si effettua tramite la tecnica della citofluorimetria, che consente di studiare le popolazioni cellulari distinguendole sulla base delle loro caratteristiche morfologiche e immunofenotipiche. Si tratta dunque di un’indagine ad elevata automazione grazie a cui un esteso pannello di parametri viene misurato allo stesso momento, definendo in tal modo la ‘carta d’identità’ della malattia. In un citofluorimetro le cellule poste in una sospensione e marcate con specifici anticorpi fluorescenti passano in maniera sequenziale attraverso una camera di conta dove sono colpite da un laser: ciò da un lato permette di definire le caratteristiche morfologiche della popolazione oggetto di esame, dall’altro mette in rilievo l’intensità del segnale generato dal fluorocromo intercettato dal laser. Il segnale viene raccolto e trasmesso ai software, che elaborano un grafico in cui le diverse popolazioni di cellule sono rappresentate come ‘nuvole’ di particelle in aree diverse, a seconda dei diversi segnali ottenuti. Tutto ciò permette di stilare un profilo d’informazioni completo per ogni sottopopolazione cellulare della sospensione di partenza.
“Nel caso del CTCL i linfociti maligni risultano positivi all’antigene CD4 ma negativi agli antigeni CD7 e CD26, che non sono espressi sulla loro superficie”, spiega l’ematologa marchigiana. “Il numero assoluto di cellule CD4+ CD7- CD26- costituisce il cosiddetto “compartimento B” (dove B sta per “Blood”, cioè sangue) e ricopre un’enorme importanza nella stadiazione del tumore”. Difatti, analogamente a quanto accade in altre patologie oncologiche che interessano la cute, anche nel caso del linfoma cutaneo a cellule T l’ematologo entra in gioco in questa specifica fase. “Indipendentemente dalla linfocitosi bisogna richiedere al paziente la tipizzazione linfocitaria, un esame da eseguire su un campione di sangue periferico per verificare l’eventuale presenza del compartimento B”, aggiunge Morsia. “Nelle forme precoci di malattia possiamo osservare un dato assoluto inferiore a 250 cellule/mmc di sangue, o comunque compreso tra 250 e 1000 cellule/mmc (rispettivamente stadi B0 o B1), mentre le forme più aggressive hanno una clonalità di tipo B2, pari a un numero di cellule superiore a 1000/mmc di sangue”.
Le informazioni provenienti dalla citofluorimetria sono preziose anche per poter valutare con accuratezza la risposta del paziente alla terapia e monitorare nel tempo gli eventuali cambiamenti riguardanti il compartimento B. “Nel linfoma cutaneo a cellule T le attuali linee guida non fissano dei momenti precisi per la valutazione”, precisa Morsia. “Tuttavia, secondo le norme di buona pratica clinica è opportuno rivalutare il paziente a 3 e 6 mesi dall’avvio del trattamento per osservare la risposta della popolazione clonale. Infatti, a differenza di altre patologie, nel CTCL il miglioramento della sintomatologia cutanea e la riduzione della frazione clonale non si raggiungono nei medesimi tempi. Per questo motivo – conclude l’esperta – la valutazione della risposta al trattamento è assai complessa e richiede successive ristadiazioni della malattia nel singolo paziente”.
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