Nicola Pimpinelli e Pier Luigi Zinzani

Il tema è stato al centro di un recente corso di formazione medica: protagonisti il prof. Nicola Pimpinelli (Firenze) e il prof. Pier Luigi Zinzani (Bologna)

I linfomi cutanei a cellule T rappresentano un ampio ed eterogeneo gruppo di tumori del sistema linfatico per i quali è auspicabile un intervento multidisciplinare, non solo in ambito diagnostico ma anche terapeutico. Ciò ha reso essenziale la stesura di protocolli operativi la cui utilità è emersa anche nel corso dell’emergenza sanitaria dettata dal diffondersi del virus SARS-CoV-2, come hanno illustrato il prof. Nicola Pimpinelli, dell’Università degli Studi di Firenze, e il prof. Pier Luigi Zinzani, dell’Università degli Studi di Bologna, durante un recente corso di formazione rivolto a dermatologi ed ematologi.

LA DIAGNOSI

Per una patologia come il linfoma cutaneo a cellule T (CTCL), nella quale l’esame clinico ricopre un ruolo primario, una delle maggiori criticità emerse nel periodo di lockdown imposto dalla diffusione del COVID-19 riguarda la difficoltà di accesso a centri qualificati per la diagnosi.

Secondo il sistema internazionale di classificazione, si usa la definizione di linfoma cutaneo a cellule T per indicare una malattia tumorale legata alla proliferazione dei linfociti T maturi nella cute; in questo ampio gruppo di patologie trovano collocazione la micosi fungoide (MF), la sindrome di Sézary (SS) e altre numerose forme di linfoma.

In particolare, la micosi fungoide è una malattia linfoproliferativa a lenta progressione che da sola rappresenta la maggior parte delle manifestazioni di CTCL (50% circa). “La patologia esordisce a livello cutaneo e segue un’evoluzione che, dallo stadio di chiazza, procede a quello di placca (con maggiore infiltrazione della cute) e, infine, allo stadio nodulo-tumorale o di eritrodermia (coinvolgimento di ampia parte della superficie cutanea). Fortunatamente, solo in una percentuale di pazienti si assiste alla disseminazione extra-cutanea tipica degli ultimi stadi”, spiega Nicola Pimpinelli, professore ordinario presso il Dipartimento di Scienze della Salute, Sezione Dermatologia, dell’Università degli Studi di Firenze. “La micosi fungoide è il classico esempio di come possano presentarsi difficoltà diagnostiche importanti nelle fasi iniziali, in cui la patologia simula condizioni cliniche come l’eczema, la psoriasi o il lichens planus, rivelandosi complessa da identificare”.

La sindrome di Sézary, invece, è una patologia decisamente più rara, nella quale le cellule linfoidi, presenti nel sangue circolante, infiltrano la cute provocando la comparsa di chiazze che, come per la micosi fungoide, hanno la tendenza alla desquamazione e alla confluenza, fino ad interessare gran parte della superficie cutanea (eritrodermia).

Da ciò si evince come l’osservazione clinica dell’esperto rivesta un ruolo ben preciso nella corretta diagnosi di malattia. “La micosi fungoide si presenta con chiazze eritematose (arrossate) e desquamanti che prediligono le aree del corpo non foto-esposte, quali la regione dei glutei e le radici degli arti (ascelle, inguine)”, prosegue Pimpinelli. “Queste, nel tempo, possono regredire e ripresentarsi e ciò deve indurre il sospetto nel medico”. Infatti, i pazienti arrivano molto spesso a consultare gli esperti presso i centri di riferimento dopo aver svolto molte visite mediche infruttuose, al termine delle quali sono stati prescritti loro unguenti o pomate incapaci di offrire davvero una soluzione al problema.

LA TERAPIA

La terapia per il linfoma cutaneo a cellule T varia a seconda delle forme di malattia”, chiarisce ancora Pimpinelli. “Se nella fase iniziale le chiazze sono poche e di piccole dimensioni, il trattamento spazia dalla vigile osservazione all’impiego dei corticosteroidi topici, che in genere si somministrano secondo lo schema “pulsato” (2-3 giorni consecutivi la settimana). Per le forme diffuse, che coinvolgono più del 10% della superficie corporea, l’intervento d’elezione si basa sulla fototerapia. Un’alternativa è la chemioterapia topica con clormetina gel [che ha un prezzo alto e non è rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale, N.d.R.]. Si tratta di un farmaco da riservare ai pazienti con malattia in fase iniziale e con lesioni contenute, o ai pazienti in ricaduta dopo fasi avanzate o con piccole lesioni residue in seguito a un precedente trattamento”.

Fortunatamente, solo circa un paziente su tre di quelli non trattati va incontro a progressione della malattia, mentre in tutti gli altri - specie quelli al di sopra dei 60 anni - le probabilità di progressione sono inferiori al 30%, anche senza terapia. Purtroppo però, quando la patologia progredisce verso le fasi avanzate, è molto arduo fare in modo che i pazienti vadano in remissione o che rimangano stabilmente in questa condizione. In questi casi diventa utile ricorrere a farmaci specifici, tra i quali mogamulizumab.

Mogamulizumab è un anticorpo monoclonale anti-CCR4 impiegato per combattere le cellule neoplastiche sia nella micosi fungoide che nella sindrome di Sézary”, precisa Pier Luigi Zinzani, professore ordinario presso il Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università degli Studi di Bologna. “I risultati dello studio clinico nel quale è stato testato hanno prodotto la conferma di come esso sia un farmaco innovativo nell’ambito della strategia terapeutica dei linfomi primitivi cutanei di derivazione linfocitaria, quali, appunto, la micosi fungoide e la sindrome di Sézary. In particolare, è stato possibile dimostrarne il vantaggio significativo rispetto al braccio di controllo, facendone la miglior opportunità di trattamento per i pazienti con sindrome di Sézary refrattari a precedenti terapie, dal momento che mogamulizumab ha il vantaggio di agire su tre livelli, cutaneo, linfonodale ed ematico”.

L’indicazione del farmaco è dunque per i pazienti in fase più avanzata di malattia, che presentano cute diffusamente arrossata e desquamante o eritrodermia, e nei quali è possibile rilevare un coinvolgimento anche modesto del sangue circolante: questo perché il principio di funzionamento di mogamulizumab prevede che il legame al recettore CCR4 presente sulla superficie dei globuli bianchi stimoli il sistema immunitario a lanciare l’attacco alle cellule neoplastiche. I pazienti con linfoma cutaneo a cellule T in fase avanzata con i requisiti adatti alla somministrazione di mogamulizumab sono circa il 4-5% del totale, e per questi il farmaco ha dimostrato effetti non solo robusti, ma anche durevoli. “Si tratta di una terapia ben tollerata e gestita con semplicità in regime di day-hospital, dal momento che la somministrazione si effettua per via endovenosa una volta alla settimana per quattro settimane e, successivamente, ogni due settimane”, spiega Zinzani. “Mogamulizumab ha prodotto ottimi risultati soprattutto dal punto di vista della risposta clinica completa e della durata della stessa, per entrambe le patologie considerate”.

LA TERAPIA IN EMERGENZA SANITARIA DA COVID-19

L’armamentario terapeutico per far fronte al linfoma cutaneo a cellule T appare dunque ben nutrito, ma la domanda che molti pazienti si sono posti in questo periodo, nel quale il COVID-19 ha invaso le nostre vite, è se l’infezione suscitata dal virus SARS-CoV-2 provochi una più rapida progressione del linfoma cutaneo. È noto, infatti, che certi virus, come il Poliomavirus, costituiscano un fattore di rischio per lo sviluppo di alcuni tumori, quali il carcinoma a cellule di Merkel. “Non è stato dimostrato che il virus SARS-CoV-2 sia un fattore di rischio per il linfoma cutaneo a cellule T”, sottolinea Pimpinelli, spiegando come, durante il lockdown, si è reso necessario sospendere i trattamenti fototerapici, suggerendo ai malati di passare a terapie alternative (corticosteroidi topici o, quando possibile, clormetina gel). Tuttavia, alla conclusione di questa fase è stato possibile riaprire l’accesso alla fototerapia (anche se a regime contingentato, per permettere l’igienizzazione delle cabine tra una seduta e l’altra), a conferma che l’adozione di idonee regole sanitarie è stata (e continua ad essere) la chiave di volta per ridurre il rischio di contagio da COVID-19 e favorire la ripresa in serenità di tutti i percorsi terapeutici ospedalieri.

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