Immagine tratta dal film Still Alice (2014)Evidenze scientifiche, racconti in prima persona e pareri di esperti si incrociano per ridefinire un nuovo concetto di socialità per le persone che soffrono di questa forma di demenza

“Noi non siamo persone normali, siamo speciali. Essere malati di Alzheimer non ci rende persone strane, si tratta di una malattia come tante. Io sono malato, ma non mi considero strano, penso di essere una persona unica. Anche le moltissime forme che può assumere questa malattia fanno sì che ognuno abbia le proprie peculiarità e rimanga una persona speciale”, così si racconta Antonio Candela, cosentino affetto dalla malattia di Alzheimer da diversi anni. La malattia è entrata nel mondo di Antonio, spazzando via tutte le sue certezze e sostituendole con ansie e paure. “Le famiglie dei soggetti affetti da Alzheimer spesso provano vergogna e non parlano della malattia. Io ho potuto conoscere un altro malato della mia città grazie a Internet, altrimenti sarei rimasto isolato”, prosegue Candela.

La demenza viene spesso considerata come una patologia da nascondere, chi ne è affetto e i famigliari provano un senso quasi di vergogna”, spiega Paola Ossola, docente presso César Ritz Colleges (Svizzera), che si occupa di turismo accessibile ed è membro dell’Associazione Alzheimer Fest, che quest’anno organizza la prima edizione di Alzheimer Fest dall’1 al 3 settembre a Gavirate (Varese). “I malati di Alzheimer e i rispettivi familiari vengono spesso esclusi dalla comunità”, continua Ossola. “Man mano che la malattia avanza, il malato non è più in grado di svolgere le attività che svolgeva precedentemente, tra cui le attività lavorative e rimane intrappolato in casa con il proprio caregiver. Entrambi i soggetti hanno bisogno di continuare a vivere la propria socialità nonostante la patologia, ma la società rende le persone con demenza più disabili di quello che sono”.

La malattia finisce per condizionare le occasioni di socialità dei soggetti che ne sono affetti, specie al Sud, dove il numero delle strutture è ancora più esiguo che al Nord. “Le attività sono scarse, servirebbe un centro Aima (Associazione Italiana Malati di Alzheimer) in ogni città, a cui si possano rivolgere ammalati e caregiver. Qui a Crotone, per esempio, abbiamo solo un telefono amico, mentre molti centri del Nord Italia sono più attivi e organizzano Alzheimer Cafè e altre attività”, spiega Candela.

Il progetto di Candela è quello di promuovere una piattaforma internet, che metta in contatto gli ammalati di tutta Italia, i caregivers e i medici. “Il web, in molte occasioni, è l’unico strumento che abbiamo a disposizione”, continua Candela. “Abbiamo creato dei gruppi chiusi su Facebook e Instagram, ma si tratta di unità che non interagiscono le une con le altre. L’obiettivo di questo progetto è promuovere una rete attiva su tutto il territorio nazionale”.

Il coinvolgimento di sole due persone ha richiesto un gran lavoro da parte di Candela: “È stato un processo lungo, ho dovuto convincerli che valeva la pena uscire dal proprio guscio. Ognuno vive a proprio modo la malattia, ma la maggior parte dei soggetti avrebbe la piena capacità di utilizzare internet e mettersi in contatto con altri. Spesso, bonariamente, ci definiscono i matti della famiglia, ma molte persone a furia di essere considerate strane iniziano a considerarsi tali, pur conservando la piena facoltà intellettiva”, spiega l’uomo.

La costituzione di una piattaforma internet può essere un primo passo per il raggiungimento di obiettivi che dovranno poi però essere traslati nella realtà. “Guardarsi negli occhi permette di stabilire un altro tipo di rapporto. Purtroppo, sono poche le persone ammalate che vogliono incontrarsi. Poter creare una comunità tra noi è particolarmente importante considerando che molti familiari e amici si allontanano quando vengono a sapere della nostra malattia”, continua Candela.
Sono numerosi gli studi che sottolineano l’importanza della socialità per i soggetti affetti da Alzheimer. Un articolo pubblicato su Scientific American la scorsa estate indicava la socialità come fattore chiave per irrobustire il cervello e prevenire la demenza. Evidenze simili arrivano da Finger (Finnish Geriatric Intervention Study to Prevent Cognitive Impairment and Disability), il primo studio controllato randomizzato sulla prevenzione del deterioramento cognitivo ad essere stato pubblicato (c’erano stati tentativi precedenti, ma fallimentari), ha sottolineato l’importanza dell’interazione sociale come importante fonte di prevenzione.

“La ricerca sta approfondendo sempre di più l’importanza di una vita ricca e appagante nei soggetti con demenza, in cui la socialità ricopre un ruolo di primo piano. Esistono due piani, quello terapeutico e quello legato alla possibilità di stare bene nel qui e ora a prescindere dalla terapia somministrata. Alle persone bisogna garantire la possibilità di vivere bene, come complemento necessario al percorso terapeutico. È necessario ricreare una normalità all’interno della patologia”, commenta Ossola.

Anche l’interazione tra malato e caregiver va ridefinita, per esplorare le abilità residue dei due soggetti coinvolti: il soggetto affetto da demenza presenta alcune abilità cognitive deteriorate, ma conserva la capacità di svolgere diverse attività e soprattutto conserva le sue emozioni. Il caregiver, invece, è sottoposto ad alti livelli di stress che aggravano le abilità emotive e spesso spingono il soggetto verso il 'burnout' e la sottovalutazione delle abilità residue degli assistiti. “Bisogna creare una comunità che accetti e accolga il soggetto, non programmi che tendano a rinchiudere malato e caregiver. Si crea un bond fortissimo tra malato e caregiver, per il quale spesso quest’ultimo si sente in colpa nel concedersi solo alcuni momenti di riposo. È invece importante ridefinire questo legame, anche all’interno di momenti di svago e socialità per entrambi”, spiega Ossola.

In questo contesto si inserisce il progetto della prima Dementia Friendly Community in Italia, lanciato nel 2016 ad Abbiategrasso, in provincia di Milano, e promosso da Federazione Alzheimer Italia. Questo centro è stato scelto per sperimentare le Dementia Friendly Community in Italia, su modello di già quanto esiste in altri paesi come il Regno Unito, perché è una città dalle dimensioni ideali e possiede una propria identità, non si limita cioè a essere la periferia di una metropoli, ma presenta caratteristiche peculiari, una ricca vita comunitaria e un ottimo tessuto associazionistico e di volontariato.

“L’obiettivo primario di questo tipo di iniziative non è costruire nuovi servizi per i soggetti affetti da Alzheimer o per i loro familiari, ma rendere disponibili quanto più possibile le risorse già presenti sul territorio, di cui queste persone usualmente non fruiscono per tutta una serie di ostacoli”, spiega Antonio Guaita, direttore della Fondazione Golgi Cenci e referente per la sezione scientifica del progetto.

La prima fase del progetto ha previsto un’inchiesta per capire i bisogni dei soggetti affetti da Alzheimer e il loro rapporti con la città; l’indagine ha coinvolto una cinquantina di famiglie. “Quello che è emerso – continua Guaita – è che queste persone hanno una forte nostalgia del quotidiano: poter passeggiare, andare in un bar o al mercato, chiacchierare con qualcuno al di fuori delle mura domestiche”.

Il progetto ha poi previsto una serie di interventi sulla città che potessero favorire la partecipazione dei malati e che tentassero di abbattere lo stigma negativo che circonda la malattia di Alzheimer, fornendo informazioni adeguate alle agenzie e alle associazioni presenti sul territorio. Dallo scorso anno, è stata avviata una collaborazione col Comune, sono stati organizzati momenti di formazione coi vigili, è stata istituita una sala di accoglienza per le persone con la demenza presso la biblioteca pubblica, dove sono presenti alcune facilitazioni quali la possibilità di parlare a voce alta e angoli di riposo più adeguati.

Gli ostacoli per l’avvio di un simile progetto sono stati molteplici, come spiega Guaita: “Le famiglie dei malati di Alzheimer spesso impediscono al soggetto di svolgere attività che potrebbe tranquillamente fronteggiare. I caregiver tendono a tutelare eccessivamente il soggetto affetto da demenza, ma così facendo rischiano di limitarlo. Uno dei nostri progetti è formare 'gli amici del martedì' e permettere a queste persone di poter riprendere ad andare al mercato, una delle attività più sentite tra gli anziani di Abbiategrasso. La presenza di figure amiche, disposte ad assistere malato e caregiver, facilita lo svolgimento di attività simili. Alcuni familiari, inoltre, provano vergogna per la malattia: diverse persone affette da demenza rivestivano un ruolo sociale di peso nella comunità di Abbiategrasso, la malattia li ha profondamente cambiati e il confronto col pubblico non è sempre facile”.

Alcuni dei percorsi cittadini sono stati modificati proprio grazie al coinvolgimento dei soggetti affetti da demenza, che hanno fornito il loro punto di vista su come poter migliorare la segnaletica, i livelli di rumore e illuminazione.

La socialità permette alla persona affetto da demenza di poter essere ancora protagonista di un mondo ricco di stimoli; questo tipo di esperienze permette all’anziano di continuare ad apprendere attraverso altri sensi, come l’emozione. Come spiega in un toccante Ted Talk Lisa Genova, laureata in neuropsichiatria ad Harvard e autrice del bestseller 'Still Alice. Perdersi': “se al soggetto affetto da demenza forniamo una sola informazione su di noi, con molta probabilità verrà dimenticata. Se invece impariamo a trasmettere molti elementi, che comprendano un contatto emozionale e sensoriale complesso, ovvero un’esperienza che deriva dalla socialità, forse uno di questi elementi potrà essere ricordato. Il segreto sta nel fornire al soggetto molti elementi che lo possano ricondurre a noi: un’emozione, un ricordo, una sensazione”.

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