Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Medicine svela l’impatto delle mutazioni in omozigosi del gene APOE4
Ogni volta che gli scienziati pubblicano nuove scoperte relative alla malattia di Alzheimer il livello di attenzione del grande pubblico sale e le testate giornalistiche si riempiono di articoli - come questo, incentrato sulla correlazione tra l’insorgenza della malattia e le mutazioni nel gene APOE4 - dando così spazio a informazioni di concreto interesse. Ciò accade perché l’Alzheimer è una delle forme di demenza più diffuse (si stima che, in tutto il mondo, ne siano affette 18 milioni di persone, di cui circa 700mila solo in Italia) per cui ancora non esiste una terapia efficace. Perciò ogni passo in più sulla strada della comprensione della patogenesi della malattia conduce i medici potenzialmente più vicini alla cura. E in un Paese, come l’Italia, in cui la fascia degli over 60 rappresenta una fetta consistente di popolazione tutto ciò conta.
La ricerca pubblicata sulle pagine della rivista Nature Medicine da un gruppo di studiosi spagnoli del Sant Pau Research Institute di Barcellona guidati da Juan Forte e Víctor Montal, dell’Unità Memoria del Servizio di Neurologia presso il polo di ricerca catalano, si focalizza sull’impatto delle mutazioni in omozigosi del gene APOE4, osservando come la gran parte gli individui in questa condizione risultino aver sviluppato la malattia di Alzheimer. L’analisi dei ricercatori spagnoli è stata condotta su 3.297 donatori di cervello (con un gruppo di controllo composto da 10.039 individui sani) dimostrando come quasi tutti gli omozigoti per il gene APOE4 presentassero la patologia con livelli significativamente più elevati della proteina beta amiloide - uno dei biomarcatori associati all’Alzheimer - già a partire dall’età di 55 anni rispetto agli omozigoti per il gene APOE3. Inoltre, fin dall’età di 65 anni quasi tutti coloro che avevano due copie di APOE4 presentavano livelli alterati di beta-amiloide nel liquido cerebrospinale. Anche la prevalenza dei biomarcatori per la malattia aumentava con l’età. Inoltre, i ricercatori hanno osservato come l’età di insorgenza dei sintomi fosse più precoce negli omozigoti APOE4 (65,1 anni) rispetto agli omozigoti APOE3.
Tra le funzioni delle apolipoproteine (APO) c’è quella del trasporto dei grassi (come il colesterolo) attraverso l’organismo; il gene che codifica per queste proteine presenta più alleli, perciò esistono diverse forme (E2, E3, E4), di cui APOE3 è una delle più diffuse nella popolazione; invece, le mutazioni associate al gene APOE4 sono da tempo considerate - insieme all’età avanzata e alla storia familiare - un considerevole fattore di rischio per la malattia di Alzheimer. I risultati dello studio spagnolo non coprono dunque l’intera popolazione di pazienti con Alzheimer dal momento che solo una modesta percentuale di individui sviluppa la malattia come risultato di mutazioni in alcuni geni specifici: di questi, quello che presentano una mutazione in omozigosi nel gene APOE4 sono ancora meno (circa il 2% della popolazione). Tuttavia, la scoperta sta contribuendo a scrivere importanti pagine di discussione. Gli autori concludono che “gli omozigoti APOE4 rappresentano una forma genetica di malattia di Alzheimer, suggerendo la necessità di adottare strategie di prevenzione, con studi clinici e trattamenti individualizzati”.
Fino ad ora, infatti, i maggiori successi contro questa forma di demenza erano giunti dallo sviluppo degli anticorpi monoclonali ma le prospettive di sviluppo delle terapie avanzate stanno aprendo nuovi scenari: proprio APOE4 potrebbe essere oggetto di studi con tecniche di editing del genoma per correggere le mutazioni che in questo gene sono associate a un aumento del rischio di sviluppare la malattia. Inoltre, la ricerca contro l’Alzheimer passa attraverso lo sviluppo di vaccini per sviluppare risposte immunitarie mirate, capaci di eliminare la proteina amiloide dal cervello.
In tutto il mondo sono centinaia gli studi clinici attivi su questa malattia ma le probabilità di successo delle molecole o degli approcci oggetto di sperimentazione dipenderanno sostanzialmente dalla capacità di individuare i pazienti nelle fasi precoci di malattia: in quest’ottica la scoperta dei neurologi spagnoli non può che suscitare entusiasmo. Infatti, in un ulteriore articolo pubblicato sulla rivista Science Translational Medicine si fa riferimento alla possibilità di predire il rischio di sviluppo di queste forme di demenza esaminando la relazione tra l’espressione di alcune proteine e l’insorgenza della malattia; la capacità di prevedere la demenza anni prima che si presentino i sintomi del declino cognitivo potrebbe offrire la speranza di un intervento precoce contro la malattia di Alzheimer.
In un futuro che si spera non essere troppo lontano queste informazioni potrebbero fare la differenza, nel frattempo l’Alzheimer continua a esser una malattia che, con le sue manifestazioni, sconvolge nel profondo le vite di chi ne è affetto, come accade ai protagonisti del libro di Matthew Thomas “Non siamo più noi stessi”, una storia che - fin dal titolo - offre una magistrale descrizione dei sintomi dell’Alzheimer.
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