A 5 anni, Rexhep Uka è stato ricoverato al Bambino Gesù, dove ha ottenuto la giusta diagnosi. Oggi, da adulto, ha deciso di raccontare la propria storia a Osservatorio Malattie Rare, nell'ambito della campagna di sensibilizzazione #rachitismoXLH.
Il suo appello: “Bisogna educare i genitori a riconoscere i sintomi della patologia”
Siamo in Albania, ed è il 1990. I genitori del piccolo Rexhep Uka (che allora aveva 5 anni) stanno guardando la televisione italiana. Già da tempo, da prima che Rexhep compisse 2 anni, avevano iniziato a notare che qualcosa, nel piccolo, non andava: aveva perso appetito, spesso si rifiutava di mangiare e, a volte, aveva attacchi di vomito. Crescendo, era sempre stanco, non riusciva a camminare a lungo e voleva sempre essere portato in braccio. Quella sera del 1990, Rai 2 sta trasmettendo “Medicina 33”: sullo schermo sta parlando il professor Giovanni Neri, allora direttore dell'Istituto di Genetica del Policlinico “Gemelli” di Roma. I genitori di Rexhep, entrambi professori, non parlano italiano e non comprendono l'argomento trattato in TV, ma la madre, forse per sesto senso materno, intuisce che il prof. Neri possa esserle d'aiuto per far luce sul malessere di suo figlio, e segna il nome e l'indirizzo dell'esperto su un foglio di carta.
L’indomani, la donna si reca da un parente, l’unico della famiglia che conosce l'italiano, e insieme scrivono una lettera al prof. Neri, allegando alcune foto di Rexhep. Pochi giorni dopo arriva la risposta del medico, con un invito, per Rexhep e per i suoi genitori, a recarsi all’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Dopo due settimane, credendo si trattasse solo di una breve visita, la famiglia Uka parte per Roma, lasciando la sorella di Rexhep a casa con i nonni. Il piccolo viene ricoverato in Endocrinologia: la prima dottoressa a visitarlo è Paola Cambiaso, ora diventata una carissima amica della famiglia.
La degenza va per le lunghe, così come le terapie: passano mesi e Rexhep, al Bambino Gesù, inizia la prima elementare, incontra i primi amici, trascorre le feste di Natale e di Pasqua. Tutto il personale, i medici e gli infermieri, diventano la sua grande famiglia, alla quale è tuttora legato. Anche la sua vera famiglia, ovviamente, si trasferisce in Italia. All'inizio, i medici non trovano la diagnosi e spostano il bambino da un reparto all’altro, somministrandogli però, fin da subito, terapie a base di calcitriolo e fosforo. Dopo un anno, attenti esami rivelano la patologia: ipofosfatemia legata all'X (XLH), una malattia rara che è conosciuta anche con il nome di rachitismo ipofosfatemico legato all'X. Anche se colpisce una persona su 20.000, la XLH rappresenta la causa più frequente di rachitismo genetico.
Oggi Rexhep ha 33 anni, è diventato un ricercatore e lavora in Svizzera, presso l’Università di Zurigo. Si occupa di ricerca sul cancro, in particolare sul melanoma, e sta per completare il dottorato di ricerca in Biologia dei Tumori. Fino ai 25 anni è stato in cura dal prof. Francesco Emma, Responsabile della Divisione di Nefrologia e Dialisi dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, uno dei massimi esperti di XLH in Italia. Ancora oggi, Rexhep, se ne ha bisogno, fa riferimento a lui sia come medico specializzato che come amico.
“Trent'anni fa, la XLH era praticamente sconosciuta, al punto che ho dovuto lasciare il mio Paese natale per arrivare alla diagnosi e alle cure. Non parlo volentieri del mio passato perché fa male, anche se mi ha permesso di diventare ciò che sono oggi”, racconta Rexhep. “Quando chiedo a mia madre perché ha deciso di trasferirsi in Italia, lei mi risponde: “ho lasciato tutto, ho perso tutto, ma ho salvato te”. Devo molto alla mia famiglia: hanno sacrificato tutta la loro vita per il mio benessere”.
Rexhep oggi sta bene e fa una vita normalissima: “Vado due volte la settimana in palestra: mi aiuta a mantenermi in forma e spero di continuare così anche in futuro. Fortunatamente, non ho affrontato interventi chirurgici legati alla XLH”. L'ipofosfatemia legata all'X è contraddistinta da ridotti livelli plasmatici di fosfato, che sono dovuti a un'elevata perdita di fosforo a livello renale. A causa di questo meccanismo patologico, la malattia, che in genere inizia a manifestarsi intorno ai primi 2 anni di età, è principalmente caratterizzata da una serie di alterazioni scheletriche associate a dolori osteo-articolari. Se non tempestivamente diagnosticata e trattata, quindi, la XLH determina lo sviluppo di deformità ossee che colpiscono soprattutto gli arti inferiori e che possono comportare la necessità di ripetuti interventi chirurgici correttivi. “Ogni tanto sento dolori alla schiena e alle gambe, ma fortunatamente, nel mio caso, il dolore non è una presenza costante”, racconta Rexhep. “Ci sono giorni in cui è più accentuato e altri in cui mi sento come Superman. Ovviamente, se faccio uno sforzo fisico più intenso, i tempi per recuperare le forze e far passare il dolore sono un po' più lunghi. Sono sempre presenti, invece, le malformazioni ossee, quelle sì: soprattutto il varismo degli arti inferiori”.
“La terapia che seguo ora è la stessa che seguo da sempre: quattro compresse al giorno di sali di fosfato e una di calcitriolo (vitamina D attiva)”, spiega Rexhep. “Ancora non è stato appurato se questo trattamento sia efficace per il rachitismo negli adulti: ci sono ancora molti studi da fare e pareri contrastanti tra gli specialisti, ma per ora continuo ad assumere questi farmaci. I disagi sono più che altro legati alla terapia con sali di fosfato, che non è disponibile in Italia”. Nel nostro Paese, infatti, gli ospedali sono costretti ad importare questo tipo di farmaco dall'estero.
Due anni fa, mentre si trovava negli Stati Uniti per motivi di studio, Rexhep ricevette una e-mail dal prof. Francesco Emma, che gli annunciava la pubblicazione su una rivista scientifica del primo studio su pazienti trattati con l'anticorpo monoclonale burosumab. Approvato proprio pochi mesi fa, sia in Europa che negli Stati Uniti, per l'ipofosfatemia legata all'X, rappresenta il primo farmaco ad agire sul meccanismo biologico alla base della malattia. “È un medicinale rivoluzionario, e i risultati sono sorprendenti”, spiega Rexhep. “Avendo come target la proteina FGF23, questo anticorpo monoclonale, somministrato ai pazienti in età pediatrica, è in grado di bloccarne la produzione, portando ad una normalizzazione dei livelli di fosfato e a conseguenti benefici a livello scheletrico”. Anche se in Europa, diversamente dagli Stati Uniti, burosumab non è stato ancora approvato per pazienti in età adulta, sono in corso, anche nel nostro Paese, diversi studi clinici che hanno l'obiettivo di valutare gli effetti del farmaco in questa specifica popolazioni di pazienti. “Anch'io ho dato la mia disponibilità a partecipare ad uno di questi studi in Italia”, racconta Rexhep.
“Personalmente, da scienziato, non mi sono occupato della mia malattia, almeno fino ad ora”, sottolinea il giovane ricercatore. “Questo perché avrei lavorato con 'egoismo', concentrandomi solo su me stesso e sulla mia patologia. Quindi ho sempre seguito la mia malattia solo da paziente. Non nego che, se trovassi un centro internazionale che si occupa di XLH, a questo punto della mia vita un pensierino ce lo farei. I centri specializzati che seguono i casi di rachitismo negli adulti sono pochissimi (io, personalmente, non ne conosco nessuno); quindi noi pazienti, una volta diventati grandi, siamo un po' abbandonati a noi stessi. Riscontro questo problema anche quando mi confronto con pazienti della mia età o più grandi. È estremamente difficile trovare specialisti, sia a livello molecolare che a livello clinico, che studino la patologia negli adulti. Dal punto di vista molecolare mi piacerebbe tantissimo, ora, studiare la XLH, e dal punto di vista di paziente mi piacerebbe parlare e confrontarmi con clinici che seguono pazienti adulti con XLH”.
“Finora la ricerca ha fatto passi da gigante nel trattamento di questa rara patologia, soprattutto nei bambini. Ma c'è’ ancora tanto, tantissimo da fare. Innanzitutto, bisogna educare i genitori a riconoscere i sintomi e a far riferimento, fin dai primi anni di età, a centri specializzati, per gestire da subito la patologia. A livello personale, mi piacerebbe organizzare in Italia un convegno sulla XLH (ovviamente non da solo), invitare i massimi esperti della patologia a livello mondiale perché possano confrontarsi e scrivere utili linee guida sulla gestione del paziente con XLH”, conclude Rexhep Uka. “In Italia abbiamo due o tre nomi eccellenti in questo campo. Io sono stato fortunato ad aver incontrato uno di loro, il professor Emma, e gli sarò eternamente grato per tutto ciò che ha fatto per me”.
Partecipa alla campagna di sensibilizzazione di O.Ma.R. sull'ipofosfatemia legata all'X: condividi questo articolo sui social con l'hashtag #rachitismoXLH.
Nella prossima intervista, la professoressa Giovanna Weber, dell’Università Vita-Salute San Raffaele (Milano), spiegherà come si effettua la diagnosi di XLH, facendo una panoramica dei trattamenti attualmente disponibili e volgendo lo sguardo verso le nuove prospettive terapeutiche.
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