Claudia Campus racconta nel suo libro il percorso per guarire dalle ferite sulla pelle e nel cuore, provocate dalla malattia e dalle vicende familiari
Lo scorso Natale, per Claudia, è stato il primo trascorso senza suo padre: un momento di tristezza e solitudine che però ha saputo esorcizzare raccontando la sua vita in un libro. Una vita non facile, sia per le vicende familiari, sia per la rara malattia genetica da cui è affetta fin dalla nascita: l'epidermolisi bollosa. Così è nato il libro “Perfettamente imperfetta” (casa editrice QuiEdit, 109 pagine), che Claudia Campus ha presentato lunedì scorso nel corso di un evento privato per medici e infermieri che si è svolto all'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
“Il mio motto è: una vita mi è stata data, questa. Io cerco di viverla ogni giorno nel miglior modo possibile. A causa della malattia non ho le unghie: allora le disegno mettendo lo smalto nelle dita del piede, così da non sembrare troppo diversa dagli altri, e dare un po’ di colore a questa vita. Avrete notato che ho scritto ‘del piede’: ebbene sì, a causa di un carcinoma ho subito anche l’amputazione di un piede”, racconta la 39enne di Berchidda, un paesino in provincia di Sassari.
Il libro vuole essere un messaggio ai giovani e un aiuto di speranza alle persone fragili che si perdono nelle difficoltà e nei labirinti della vita. “Vorrei dire ai giovani e a tutti di essere sempre sé stessi, di lottare e superare i momenti in cui si sentono diversi da quello che impone la società. Innanzitutto dobbiamo piacere a noi stessi”, prosegue l'autrice. “So e sento che è bello amare la vita nella sua semplicità e avversità; è bello non sentirsi mai inferiori a nessuno, perché ognuno di noi vale tanto. Nonostante tutto sono fiduciosa e penso che per me qualcosa di bello deve ancora arrivare”.
Riportiamo di seguito un estratto del libro.
Era maggio del 1983, un maggio particolarmente caldo. Ed eccomi qua: un piccolo fagottino con un visino dolce e delicato. Mi raccontano che il naso sembrava un puntino; all'apparenza ero una bimba come tante, ma in realtà ero rara come poche. I medici allarmarono subito i miei genitori: ero completamente senza pelle, non mi si poteva toccare; dissero loro di battezzarmi in fretta perché non si sapeva quanto avrei potuto vivere. Loro erano molto spaventati, ma non sapevano che quel fagottino così delicato in realtà aveva tanta voglia di vivere e un bel caratterino. La malattia all'epoca non si conosceva quasi per niente, ma, dopo un mesetto, arrivò a Sassari un luminare da Roma che finalmente disse ai miei genitori da cosa ero affetta... epidermolisi bollosa, nella forma distrofica recessiva.
Una malattia rara della pelle che così si nasce e così si muore, te la porti addosso tutta la vita, che tu voglia o no. Da lì inizia il mio ed il nostro calvario perché io, la malattia, la avevo addosso, ma le persone che mi volevano bene soffrivano con me e si vedevano impotenti di fronte a questo dolore. In realtà già da piccola si vide subito il mio caratterino: il mio motto era dire sempre “no”. La mia passione... le scarpe. Fin dai nove anni andavo al negozio di scarpe del mio paese (da sola) e dicevo che mi avevano mandato i miei genitori a comprare scarpe (non era vero) e, se me ne davano qualche paio, le portavo a casa per farle vedere ai miei genitori, così avrebbero scelto quali comprarmi. Tornavo a casa ma, in realtà, prendevo solo una grande sgridata, e allo stesso prezzo andavo a riportare indietro le scarpe senza averne acquistato nemmeno un paio. Ma non mi arrendevo, ogni tanto ritentavo e qualche volta, credo per sfinimento, i miei me le compravano.
Ancora prima, c'era stata la passione per gli orecchini. Avevo 8 anni. Prendevo 10.000 lire dal borsellino di mia mamma ed andavo, di nascosto, a bucare le orecchie. Questo l’ho fatto per sei volte perché ogni volta venivo scoperta e me li facevano togliere temendo per la pelle. Alla fine, al settimo tentativo, mi era venuta un’infezione e, a quel punto, mi sono spaventata e ho lasciato perdere. Amavo giocare con mio fratello. Lui è più grande e quindi lo prendevo come esempio; amavo giocare a pallone con lui e anche alla lotta. La malattia non fermava il mio essere un po’ maschiaccio né la mia voglia di sfidare tutto e tutti. Ovviamente le prendevo sempre io, ma non mi arrendevo. Da grande ci si è persi un po’, ma non si cambia quel che si ha dentro.
All'età di 13 anni inizia per me la mia prima grande battaglia perché, se la malattia fino a quell’età non mi aveva dato grossi problemi, ora arrivava il peggio. Una brutta infezione, la scabbia, si era impadronita della mia pelle. Ci sono voluti un bel po’ di mesi per capire cosa avessi e, nel frattempo, la mia pelle e il mio sistema immunitario vennero messi a dura prova. Iniziarono le medicazioni su tutto il corpo; duravano anche quattro ore. Era davvero un calvario. Dopo qualche mese mi portarono a Roma e ci rimasi tre settimane. Con una biopsia scoprirono cosa avevo e mi dissero che ero l'unico caso al mondo di epidermolisi bollosa con scabbia.
Durante il ricovero scoprirono anche che la malattia mi aveva causato due stenosi esofagee, ragione per cui, fin dall'età di tre anni, mangiavo poco o quasi nulla, perché il cibo mi si bloccava nell’esofago; passavo anche giornate intere senza mangiare e senza bere perché, quando è così, non passa nemmeno l'acqua. A quel punto, da lì mi portarono in ambulanza al Bambino Gesù per farmi la dilatazione e da allora, ogni qual volta ne ho bisogno, mi devo sottoporre a questo intervento. Mangiare rimane sempre un calvario, soprattutto se vado a pranzo o a cena con persone che non conosco e non so come spiegare la situazione.
Le cure mi creavano tanto dolore. Una mattina, mentre ero ancora in ospedale, mi ritrovai completamente nuda davanti a 12 medici arrivati da tutto il mondo per studiare il mio caso. Quella situazione mi segnò molto; sono rimasta anni con il terrore di medici ed ospedali. Quelle tre settimane rimasi in una camera di isolamento, perché purtroppo era una malattia contagiosa. Mi ricordo che all’epoca ancora non c'erano i cellulari e mi ero portata una radiolina dalla quale ascoltavo sempre una canzone, “La forza della vita”, e io lì ne ho avuta tanta di forza!
Da quell'anno tutto è cambiato, anche la mia famiglia. Da allora iniziai a medicare non solo le ferite della pelle, ma anche quelle del cuore. Decisi di andare a vivere con i miei nonni materni, che abitavano al piano di sopra. Mia nonna materna, a quel punto, mi fece da mamma; il nostro era un grande amore, ma purtroppo, quando avevo 18 anni, a causa di una malattia fulminante, venne a mancare. Piano piano stavo perdendo tutti i miei affetti più cari e non avevo solo il dolore della malattia, ma la mancanza di affetto, di quell'amore che dicono curi ogni cosa. È stata dura, ma mi sono rimboccata le maniche e ho continuato ad andare avanti con gli insegnamenti che mia nonna mi aveva lasciato. Fino a 26 anni ho continuato a vivere in quella casa con mio nonno, età in cui anche lui mi ha lasciata.
Nel frattempo, mio padre incontrò nuovamente la felicità con Francesca; ero contenta per lui perché la sua felicità per me era importante, anche se il nostro rapporto ogni tanto veniva messo a dura prova. Ma il nostro legame era così forte e profondo che si poteva incrinare ma mai spezzare. E così è stato finché, purtroppo, lo scorso anno è venuto a mancare. Solo io so quanto mi manca! Anche perché tutto avrei pensato nella mia vita, tranne vivere senza di lui. Insomma, in un modo o nell'altro non ho mai smesso di lottare, sia per la malattia sia per i miei cari.
Ed ecco che la ragazza/donna, diventata grande prima del tempo, dà una svolta alla sua vita: ho preso la patente e subito una macchinina tutta mia; ho iniziato ad uscire, ad andare alle spiaggiate, a ballare con tanti amici ed ho avuto anche qualche storia, non andata poi a buon fine, ma si sa, nella vita tutto fa esperienza ed una come me non potrà mai essere tra quelli che si fermano solo all’apparenza e all'estetica. Mi sono sempre fatta conoscere per Claudia con il suo carattere, non con la sua malattia; ho sempre cercato di non far pesare alle mie amicizie la malattia perché, quando esco di casa, i miei problemi rimangono là dentro. Cercavo di vivere sempre una vita più normale possibile. Ho anche iniziato a viaggiare da sola con appresso il mio bagaglio di medicazioni, ed ero fiera delle mie piccole grandi conquiste.
Finché a 30 anni arrivò un altro duro colpo. Nell'epidermolisi bollosa, purtroppo, in età adulta capita che alcune ferite si trasformino in carcinomi e così è capitato a me. Non mi è stato riconosciuto subito e, quando si è capito, era già troppo tardi, rischiavo di perdere l'arto inferiore sinistro. Nonostante tutto si è provato a salvarlo con interventi di asportazione e di elettrochemioterapia ma, purtroppo per me, senza risultato. Da subito ho sentito dentro quale sarebbe stata la fine ed in quei due anni di lotta ho cercato di prepararmi psicologicamente, da sola, chiedendomi cosa preferivo... morire o perdere l'arto? Senza dubbio la seconda. Amo troppo vivere; nonostante sapessi che tutto sarebbe cambiato, non mi importava, almeno ero viva. Una scelta sofferta, anche perché mio padre era contrario. Per lui sarebbe stata l'ennesima sofferenza perché è vero che la malattia l'avevo io, ma è vero anche che la sofferenza di un genitore è tantissima: sei impotente, puoi solo abbracciare e stare vicino a tuo figlio, ma la battaglia è la sua, e io quella battaglia volevo vincerla. Così, ad agosto del 2015 è arrivato l'intervento di amputazione.
Nel frattempo, ero andata a vivere da sola. Diciamo che forse si poteva pensare a questa mia esigenza come ad un capriccio, ma non era così. Con l'aiuto di mio padre e Francesca abbiamo fatto una piccola casetta tutta per me. Quando sono andata a vivere da sola avevo già il carcinoma, ma non ho mai smesso di credere che quel mio sogno si sarebbe avverato. Ricordo quel gennaio 2015: ero felicissima! Mi occupavo di me e della casa come potevo, ma questa cosa mi rendeva orgogliosa; soffrivo per la mia salute, ma ero felice per la mia indipendenza, quella indipendenza che mi ero costruita nonostante nessuno credesse in me perché, a quanto pare, una persona ammalata non può avere sogni, non può realizzarli. Io, invece, c'ero riuscita nonostante tutto e tutti.
Quando sono tornata a casa dopo l'intervento di amputazione, la prima notte ho dormito da sola, poi i giorni seguenti ho iniziato a stare male, ero molto debole e a quel punto i miei famigliari, a turno, venivano a dormire da me. Così per un mesetto perché io, ahimè, sono tanto testarda e, anche se mio padre insisteva perché andassi a vivere da loro per un periodo, ho continuato a dire di no. Claudia non torna indietro, Claudia va solo avanti con le sue scelte; se soffro, stringo i denti e vado avanti. Dopo qualche mese, ho capito che la mia situazione era molto pesante, perciò ho trovato una ragazza che mi aiutasse in casa e con le medicazioni, perché senza l'arto e in sedia a rotelle tutto era complicato. Non avevo più quella indipendenza che mi ero guadagnata con tanta fatica e non volevo far pesare il tutto alla famiglia, del resto anche loro avevano la loro vita e i loro impegni. Ora ho una persona che mi assiste in settimana, e una nel fine settimana. La prima è da me ormai da sei anni, ha imparato a conoscere tutto di me, a sopportarmi e supportarmi in tutto e per tutto. Da quando non ho più mio padre è lei che mi accompagna anche alle visite e ricoveri fuori regione.
La vita in carrozzina crea anche molta solitudine, perché non sempre gli amici o la famiglia possono venire a trovarmi o portarmi a svagarmi un po’. E questo fa male. I medici, prima dell’amputazione, mi dissero che, a causa dei problemi alla pelle, non avrei mai potuto mettere una protesi. La prima cosa che pensai fu che da quella sedia non mi sarei mai alzata, ma siccome sono testarda, dopo qualche anno dall’intervento ci ho provato. Feci una prova ma, purtroppo, effettivamente non andò bene. Lo scorso anno, dopo la morte di mio padre, ho capito che dovevo darmi ancora una possibilità e, grazie a un centro protesi di Genova, ci sono riuscita. Dopo cinque anni che non camminavo, mi sentivo una bimba ai primi passi, non mi reggevo in piedi, non riuscivo a fare un passo. Volevo farcela da sola, come sempre, ma ho capito che se non mi fossi fatta aiutare, non sarei andata da nessuna parte. Così ho chiamato una ragazza del mio paese che insegna pilates e, grazie a lei, piano piano stiamo riuscendo a rimettere in piedi la Claudia di prima.
Certo non posso fare lunghe camminate o portarla tutto il giorno, ma quel poco che riesco a fare per me è già tanto ed è una bella risposta ai medici che mi dicevano che la protesi non l'avrei mai messa... ma io l'ho messa e continuerò con sempre maggior forza. Questo per farvi capire che sì, i medici studiano la malattia, ma sta a noi capire fin dove riusciamo e come possiamo aiutarci, perché non c'è miglior medico di se stesso. Come avrete capito, non è facile vivere con questa patologia però, con il passare degli anni e del tempo, ci si abitua, diventa una routine, spesso pesante perché le medicazioni vanno fatte ogni giorno, non ci sono giornate libere; è un “lavoro” che non ti scegli, ma che ogni giorno devi compiere, lo devi fare prima di tutto per te stessa e anche per chi ti sta intorno perché già a volte le medicazioni, dalla mattina alla sera, creano cattivo odore, figuriamoci se lasciate per qualche giorno. Ci sono giornate che, appena mi sveglio e penso a quello che mi aspetta, non ne ho voglia, non ho voglia di farlo, non ho voglia di soffrire, ma si fa, lo devo a me stessa.
Poi ci sono gli sguardi della gente che, alcune volte, non sono piacevoli; la loro pietà nei miei confronti si vede nei loro occhi e fa male, ti ricorda come sei e tu magari per un momento ti eri dimenticato della tua diversità. Ci sono domande scomode, ma che io rendo semplici rispondendo con un sorriso. Non sopporto la pietà, preferisco che mi si dica che sono stronza ma non che sono poverina. Claudia, prima della malattia, ha una testa e un cuore, un cuore grande, ha due occhi grandi che parlano da soli e dicono tanto di me. Ho ancora tanti sogni e, se avessi la bacchetta magica, cosa farei? Cosa vorrei? La Claudia dei miei sogni è impegnata nel campo della moda, o nel teatro; ha una famiglia che si è creata lei e che l'aspetta ogni giorno quando rientra stanca dal lavoro, in una casa dove regna solo amore e nessuna malattia. Una casa piena di risate e niente lacrime. Vorrei poter fare nuovamente il bagno al mare. Vorrei raccontare ai miei figli la mia storia, ma quella della me sognatrice dove tutto è bello.
Vorrei alzarmi la mattina e farmi una doccia veloce, preparare la colazione per la famiglia e scappare al lavoro, quel lavoro che mi sono scelta e che amo. Insomma, se avessi la bacchetta magica, vorrei un mondo senza epidermolisi bollosa, lo vorrei per me e per tutte le persone che ne soffrono. Anche se si vive una malattia veramente crudele e se si ha una famiglia non proprio unita, bisogna cercare la forza in se stessi, in fondo al proprio cuore dove si troverà sempre una ragione per vivere, anche se sembra non ce ne sia nemmeno una; non perdete mai la speranza, ma i primi a crederci dovete essere voi. A volte si va avanti per inerzia, ma l'importante è andare e non lasciarsi andare; non è facile perché anche io crollo, ma mi asciugo le lacrime e continuo: ho imparato anche a sdrammatizzare e questo fa tanto, bisogna anche ridere di noi stessi, altrimenti ci si ammala peggio. Sorridete e amate sempre la vita nonostante tutto, ve lo dice una a cui avevano dato qualche mese di vita e sono passati 39 anni.
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