In futuro, il nuovo biomarcatore potrebbe consentire di diagnosticare precocemente la malattia e intervenire con strategie di medicina di precisione
Roma - Riuscire a intervenire con un trattamento risolutivo nelle primissime fasi della malattia di Parkinson, per arrestarne il decorso. È da sempre la speranza dei neurologi, che purtroppo, da trent’anni a questa parte, per il trattamento di questa condizione che interessa almeno 400mila italiani hanno potuto contare solo sulla ‘vecchia’ levodopa. Ma qualcosa potrebbe presto cambiare. E uno degli studi che riaccendono la speranza è in pubblicazione sul numero di novembre della rivista Brain.
Il lavoro, frutto della collaborazione di un pool di Università, IRCCS ed enti di ricerca italiani (Università Cattolica campus di Roma, Università di Perugia, Università degli Studi di Milano, CNR di Roma, Università San Raffaele IRCCS di Roma, Università di Roma Tor Vergata e IRCCS Fondazione Santa Lucia), coordinato dal professor Paolo Calabresi, Direttore della UOC di Neurologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Neurologia dell’Università Cattolica, Campus di Roma, è andato a indagare i meccanismi attraverso i quali l’alfa-sinucleina anomala si organizza e interferisce con la comunicazione tra neuroni, per poi portarli a una distruzione irreversibile (neurodegenerazione).
“Per studiare questi aspetti – spiega il professor Calabresi – è stato messo a punto un modello animale molto precoce e progressivo di malattia di Parkinson causata dall’attività degli aggregati di alfa-sinucleina, in grado di riprodurre le fasi salienti della malattia osservata nei pazienti. In questo modo, siamo riusciti a individuare i meccanismi attraverso i quali l’alfa-sinucleina alterata determina le prime manifestazioni della malattia. La speranza è che questo possa portare a scoprire nuove strategie terapeutiche, quali anticorpi monoclonali in grado di contrastare la diffusione della proteina. Queste immunoterapie avrebbero lo scopo di ‘insegnare’ al sistema immunitario a riconoscere precocemente l’alfa-sinucleina anomala, per distruggerla prima che arrechi un danno cellulare. L’alfa-sinucleina rappresenta insomma un target farmacologico promettente, una nuova frontiera per la ricerca di una terapia (e potenzialmente di una cura) per la malattia di Parkinson, che non sia più solo basata su farmaci che alleviano i sintomi, ma su terapie in grado di ritardare o bloccare la progressione della malattia”.
Ma per avere successo, è fondamentale poter disporre di strategie di diagnosi precoce. E ancora una volta la soluzione potrebbe ruotare intorno all’alfa-sinucleina modificata, che è anche al centro delle sperimentazioni per la ricerca di biomarcatori di fase precoce e può essere misurata sia nel liquor che nel sangue. “Questo nuovo biomarcatore – prosegue il professor Calabresi – potrebbe consentire, in futuro, di diagnosticare la malattia in fase precoce e di intervenire con strategie di medicina di precisione. Non sorprende dunque che l’alfa-sinucleina sia stata soprannominata la proteina della speranza”.
L’alfa-sinucleina è una proteina prodotta dai neuroni, che ha la funzione di regolare il ‘traffico’ dei neurotrasmettitori a livello delle sinapsi. Se questa proteina ‘si ammala’, tende a formare degli aggregati di fibrille che si accumulano all’interno dei neuroni, disturbando il dialogo tra neuroni a livello delle sinapsi, per poi portare a morte le cellule nervose (forse per mano delle cellule immunitarie, richiamate nei punti del cervello dove sono maggiori gli accumuli di alfa-sinucleina alterata e quindi tossica). È questa una caratteristica tipica di alcune patologie neurologiche quali la malattia di Parkinson o la demenza a corpi di Lewy, che per questo vengono indicate come “sinucleinopatie”. In alcune rare forme familiari di malattia di Parkinson, inoltre, sono state individuate delle mutazioni a carico del gene codificante per l’alfa-sinucleina (SNCA).
Seguici sui Social