neuroblastoma, dottor Mario CapassoDott. Mario Capasso (Napoli): “In generale, questo tumore si applica facilmente ai protocolli terapeutici che vanno a stimolare il sistema immunitario contro le cellule tumorali”

I tumori nei bambini sono veri e propri tsunami, eventi incontrollabili e ad alto potenziale distruttivo, che irrompono bruscamente nella vita di una famiglia scardinandone gli equilibri e turbandone la serenità. In un articolo da poco pubblicato sulle pagine della rubrica Sanità de “Il sole 24 ore”, Angelo Ricci, presidente della Federazione Italiana Associazioni Genitori Onco-Ematologia Pediatrica (FIAGOP), ha usato questa metafora per descrivere l’impatto di un tumore dell’infanzia su una famiglia. E sebbene, come si legge nell’articolo, i tumori pediatrici siano per lo più rari, ve ne sono alcuni più diffusi e pericolosi di altri. Uno dei più tristemente conosciuti è il neuroblastoma, un tumore pediatrico che, secondo i dati AIRTUM, costituisce la quasi totalità dei tumori del sistema nervoso simpatico che affliggono i pazienti nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni: in questa età, il neuroblastoma ha un’incidenza stimata in 8-10 casi per milione all’anno. Si tratta di un tumore che arriva a rappresentare circa il 7-8% di tutti i tumori maligni nei bambini ed è il più frequente nel periodo da 0 a 5 anni, tanto che, in molti casi, ha esordio addirittura nei primissimi mesi di vita.

Il neuroblastoma è un tumore del sistema nervoso simpatico la cui origine va fatta risalire ai primitivi neuroblasti localizzati nella cresta neurale”, specifica il dott. Sandro Bruno, specialista in Neurologia nonché ex primario dello stesso reparto presso l’Ospedale di Conegliano (Treviso). “È un tumore del tessuto neuroepiteliale che, generalmente, ha nelle ghiandole surrenaliche e nei gangli paraspinali le sedi maggiormente colpite. Ciò implica una pluralità di zone presso cui può svilupparsi, dall’area cervicale a quella toracica o addominale”. La prognosi è molto variabile e legata alla notevole eterogeneità che contraddistingue questa forma tumorale. “Nei soggetti più grandi, il neuroblastoma tende a presentarsi in forma piuttosto aggressiva, pregiudicando notevolmente i tempi di sopravvivenza del paziente – riprende Bruno – mentre nei bambini più piccoli e nei soggetti affetti da forme lievi, la prognosi è migliore e la maggior parte dei malati vince la malattia”.

Analogamente a quanto accade in altre forme tumorali neuroendocrine, quali il feocromocitoma, il quadro clinico associato al neuroblastoma è vago e include sintomi piuttosto generici che tendono a farlo confondere con uno stato influenzale o infiammatorio. Malessere, febbre, anemia e leucopenia, ecchimosi periorbitali, dolore, sbalzi d’umore e difficoltà a camminare sono solo alcuni dei segnali ai quali si accompagna la presenza di una massa tumorale che, quando localizzata a livello addominale o toracico, può esercitare una compressione sugli organi vicini. Non è affatto facile porre diagnosi di neuroblastoma: ciò implica che sia fondamentale rivolgersi a centri di cura e ricerca specializzati, presso cui eseguire analisi dettagliate che comprendono, oltre al dosaggio di sostanze specifiche come le catecolamine urinarie, anche l’esecuzione di indagini strumentali che spaziano dall’ecografia alla scintigrafia con mezzo di contrasto, fino alla biopsia osteomidollare. La valutazione complessiva dei risultati in un contesto multidisciplinare risulta fondamentale per la conferma diagnostica e la decisione sul miglior approccio terapeutico.

Il neuroblastoma, infatti, è un tumore che presenta un'estrema tendenza invasiva, tanto che oltre la metà dei bambini affetti manifesta metastasi al midollo osseo, allo scheletro, al fegato, alle orbite e ai linfonodi. Lo stato e l’estensione della malattia sono parametri fondamentali per la definizione del tumore e del successivo trattamento e, in aggiunta ad essi, negli ultimi anni il progresso negli studi di genetica ha permesso di approfondire la conoscenza delle caratteristiche della neoplasia, attribuendo un ruolo di primo piano alle amplificazioni del gene MYCN, associate a una prognosi severa, o alle mutazioni dei geni ALK e BARD1, collegate alla predisposizione per la malattia. “Ogni neuroblastoma possiede caratteristiche diverse collegate sia all’origine che alle modalità di progressione”, spiega il dott. Mario Capasso, ricercatore in Genetica Medica - CEINGE Biotecnologie Avanzate presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. “Ciò impone l’avvio di una terapia specifica, ritagliata appositamente sul paziente e sviluppata sulla base del tumore stesso”. Generalmente, l’armamentario a disposizione per contrastare il neuroblastoma comprende il trattamento chirurgico, radioterapico e chemioterapico. A seconda dello stadio a cui viene riscontrato il tumore è possibile selezionarne uno o più d’uno, tenendo conto delle condizioni del paziente: è importante evitare terapie aggressive quando il neuroblastoma non sia in fase avanzata e, al contempo, non risparmiare alcuna possibilità nei casi più gravi. In questo senso, una più estesa e peculiare caratterizzazione molecolare del tumore ha favorito l’identificazione di forme aggressive che rientrano nel gruppo dei tumori ad alto rischio. All’interno di tale insieme, sono state prese a bersaglio alcune specifiche proteine contro cui è possibile impiegare farmaci mirati, quali gli inibitori della proteina MYCN e delle chinasi Aurora.

L’immunoterapia è il fronte terapeutico più promettente che, come spiega ancora Capasso, ha garantito un evidente aumento della sopravvivenza. “In generale, il neuroblastoma si applica facilmente ai protocolli di immunoterapia, un tipo di terapia che va a stimolare il sistema immunitario contro le cellule tumorali – precisa Capasso – specialmente quelle che esprimono in superficie l’antigene GD2, ben riconoscibile dalle cellule del nostro sistema immunitario. Questo è un primo importante motivo per cui questa terapia, nel neuroblastoma, ha una certa efficacia”. L’immunoterapia oncologica si basa sul principio del riconoscimento tra antigene e anticorpo: cercando gli antigeni specificamente espressi sulla membrana esterna delle cellule tumorali è possibile riprogrammare le cellule del sistema immunitario – specialmente i linfociti B e T – per far loro esprimere anticorpi che favoriscano il riconoscimento, e quindi l’eliminazione, della cellula cancerosa. Un procedimento decisamente più facile da immaginare che da tradurre in realtà, ma che si è rivelato molto efficiente nei tumori del sangue: in generale, contro questa tipologia tumorale l’immunoterapia funziona bene nell’adulto, ma l’impiego di linfociti CAR-T ha prodotto risultati promettenti anche contro i linfomi e la leucemia linfoblastica acuta nel bambino.

Sulla base di questi presupposti, in Italia si sta svolgendo un innovativo protocollo di studio che si pone l’obiettivo di sviluppare una terapia immunologica personalizzata, basata su cellule CAR-T, che possa risultare efficace anche in un tumore solido come il neuroblastoma. “Per la prima volta, a Roma si sta testando una terapia che utilizza le cellule CAR-T nei bambini con neuroblastoma”, conferma Capasso. Ciò che i ricercatori italiani stanno cercando di fare è modificare geneticamente i linfociti T estratti dal paziente per renderli più aggressivi nei confronti del tumore. “Le cellule CAR-T esprimono nuovi antigeni grazie a cui possono riconoscere in modo molto diretto la cellula tumorale e ucciderla”, spiega Capasso, che nell'ambito di questo progetto si occupa del controllo di qualità nel processo di ingegnerizzazione dei linfociti T. “È un metodo piuttosto complicato, con il quale si va a creare un nuovo farmaco sul paziente. Sono le cellule stesse del paziente a trasformarsi in un farmaco contro il tumore. Tuttavia, si tratta di un progetto complesso che può essere svolto solo in centri forniti di adeguata organizzazione e di debite certificazioni da parte dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’AIFA”.

Coordinato dal prof. Franco Locatelli, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, questo progetto di studio, finanziato interamente dalla Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma di Genova, si avvale della collaborazione di vari specialisti in tutta Italia. “Lo studio è partito a gennaio e per fine anno sono attese le prime risposte”, conclude Capasso. “Solo allora si capirà se sarà possibile rallentare la malattia e aumentare la sopravvivenza dei pazienti; o se, addirittura, questo tumore solido potrà essere curato”.

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