Ilaria Cucchi - Demenza frontotemporale

La malattia del padre, la diagnosi tardiva, lo smarrimento e poi l’incontro con l’associazione: “Raccontare è il primo passo per aprire porte che altrimenti resterebbero chiuse”

“Sono convinta che il dolore possa fare talmente male da farci ammalare e, a volte, anche a morire. E posso dire che, in quanto a dolore, la mia famiglia ne sa così tanto che potrebbe scriverci su un manuale”. Parte da lontano la senatrice Ilaria Cucchi, da quelle vicende che hanno messo lei e la sua famiglia al centro di una lunga e triste storia italiana, nel raccontare la difficile patologia che ha colpito suo padre Giovanni: la demenza frontotemporale (FTD)a cui negli scorsi giorni ha voluto dedicare un incontro in Senato, chiamando a raccolta la comunità scientifica, la società civile e le istituzioni.

“Prima il dolore per le problematiche legate alla droga, che era entrata nella vita di mio fratello Stefano e nelle nostre”, prosegue Ilaria Cucchi. “Poi il dolore per il suo omicidio, come oggi possiamo finalmente chiamarlo, dopo quei lunghissimi anni di battaglie legali nei quali due genitori, mio padre e mia madre, sono stati costretti a difendere il proprio figlio contro le tante accuse che cercavano di negare quella verità, emersa solo dopo tanti anni. Entrambi i miei genitori si sono ammalati, mia madre è morta esattamente due anni fa, poco dopo la fine del processo che riconosceva l’omicidio di Stefano e condannava i colpevoli. Nel frattempo mio padre cominciava a manifestare i segnali di una malattia che all’inizio è difficile da individuare, da catalogare e da comprendere, ma che poi diventa sempre più evidente e devastante”.

Quando sono iniziati i primi sintomi?

I primi sintomi sono iniziati più o meno dieci anni fa, forse anche di più. Mio padre aveva intorno ai 64 o 65 anni. Eravamo fuori dal tribunale, dopo una delle tante udienze per mio fratello Stefano. C’era anche il mio compagno, Fabio. Stavamo pranzando, e mio papà fece una domanda a Fabio. Fabio rispose, ma dopo pochi minuti mio padre gli fece ancora la stessa domanda. Fabio rispose di nuovo, e questa scena si ripeté per quattro o cinque volte in pochi minuti. Lì ho capito che c'era qualcosa che non andava e ho deciso di portarlo da un neurologo.

E poi cos’è successo?

Durante la visita mio padre sembrava in perfetta forma. Rispondeva correttamente a tutte le domande. Alla fine, il professore che lo aveva visitato disse che stava benissimo e che forse io ero un po’ troppo ansiosa. Ho ricevuto la stessa risposta in più occasioni, fino a che non gli è stato diagnosticato il Parkinson. È molto comune che la demenza frontotemporale venga confusa con il Parkinson, perché i sintomi iniziali sono simili. Così abbiamo perso altri due o tre anni, curandolo come se fosse Parkinson. Gli dissero di camminare il più possibile e di usare la cyclette, ma ricordo che non riusciva a usarla correttamente e spesso cadeva. Poco prima che mia madre morisse, ebbero un incidente stradale: la macchina fu distrutta, e finirono entrambi al pronto soccorso. In quell’occasione scoprimmo che mio padre aveva fratture ovunque, per via di tutte le volte che era caduto in precedenza, anche da fermo.

Come siete arrivati alla diagnosi?

Dopo due anni di cure inutili per il Parkinson, disperata, mi sono rivolta all’Ospedale dell'Università di Siena, dove lavorava il professor Alessandro Rossi, un neurologo di fama mondiale. Fu lui a diagnosticare la malattia. Ricordo che non aveva il coraggio di comunicarmi il verdetto: mio padre era affetto da una malattia di cui allora non conoscevo neppure il nome, la paralisi sopranucleare progressiva (PSP). Rappresenta una delle forme meno invasive tra le demenze frontotemporali, ed è anche l’unica riconosciuta come malattia rara. In un certo senso, mio padre può ritenersi un malato “fortunato”, se così si può dire.

Cosa significa ricevere dopo tanto tempo una diagnosi?

La consapevolezza è sempre fondamentale, anche quando si tratta di una notizia tremenda. Sapere cosa ci aspetta ci permette di prendere decisioni più informate per affrontare la malattia.

Come sta suo padre oggi?

Ha iniziato con il tremore, poi ha smesso di camminare. All’inizio cadeva spesso, ma non riuscivamo a capire perché. La scrittura è diventata sempre più piccola e si sono presentati problemi alla vista. Ora è praticamente immobile e non vede quasi più. Da pochi giorni ha smesso anche di parlare, riesce solo ad emettere dei suoni. È qualcosa di spaventoso, perché dentro quel corpo c’è una mente che comprende tutto. Lui è perfettamente consapevole di quello che sta succedendo, e questo lo turba visibilmente, pur conservando la dignità che lo ha sempre contraddistinto, anche negli anni delle battaglie per Stefano. Ho scelto di non dirgli cosa lo aspetta, per proteggerlo. Da figlia, vedere tutto questo è devastante. La malattia è come un mostro che, tra rallentamenti e accelerazioni, giorno dopo giorno, ti toglie qualcosa.

Cosa può fare la società civile per una malattia così impattante?

Purtroppo, oggi non esiste alcuna cura. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di garantire una qualità di vita dignitosa ai pazienti. Ma oltre all’aspetto medico, c’è anche la questione dell’isolamento sociale. La demenza frontotemporale è una patologia di cui si parla poco e si conosce poco. È per questo che il convegno organizzato in Senato è così importante: dobbiamo cominciare a parlarne. Per me è stato sempre fondamentale raccontare le cose: lo è stato nel caso di mio fratello Stefano, e lo è oggi per questa malattia. Raccontare è il primo passo per aprire porte che altrimenti resterebbero chiuse.

Ha parlato di isolamento sociale. Che cosa intendeva esattamente?

Le famiglie si sentono sole. Ti ritrovi a gestire qualcosa di enorme, spesso senza le informazioni o il supporto adeguato. Non c’è abbastanza sostegno per chi vive queste situazioni, se non da parte di organizzazioni come l’Associazione Italiana Malattie Frontotemporali. È un’associazione composta per lo più da familiari, che hanno vissuto questa esperienza sulla propria pelle e ora la mettono a disposizione degli altri. È un po’ quello che ho fatto io con la vicenda di mio fratello, e quello che intendo fare oggi con questa patologia: farne la mia battaglia di vita, la mia seconda battaglia.

Cosa spera di ottenere?

L’obiettivo è che la demenza frontotemporale venga riconosciuta come rara e che si incentivi la ricerca di farmaci in grado di curarla. Spero che arrivi presto il giorno in cui nessun familiare dovrà più sentirsi dire: “Questa malattia non è curabile”. E poi ci sono i familiari che svolgono un ruolo fondamentale. Possono fare davvero la differenza, ma sono persone estremamente sacrificate e, spesso, abbandonate, che andrebbero valorizzate di più.

Leggi anche: “Demenza frontotemporale: cos’è la malattia rara che ha colpito Bruce Willis”. 

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