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L’eterogeneità dei progetti di screening e dei panel genetici analizzati rischia di compromettere l’utilizzo dei dati. La prof.ssa Cristina Cereda spiega l’importanza di un approccio condiviso

Lo screening neonatale si è evoluto nel tempo, passando dall’analisi di poche malattie metaboliche alla possibilità di individuare un numero crescente di patologie genetiche attraverso tecnologie avanzate di sequenziamento. Tuttavia, l’eterogeneità dei progetti esistenti a livello globale solleva questioni fondamentali sulla standardizzazione e sull’interoperabilità dei dati. La prof.ssa Cristina Cereda, Direttore della S.C. Screening Neonatale, Genomica Funzionale e Malattie Rare presso l’Ospedale dei Bambini Vittore Buzzi di Milano, ha affrontato queste tematiche nel corso dell’evento "Malattie Rare: Screening, Diagnosi e Terapie Innovative" organizzato dall’Università di Trieste e dall’IRCCS Burlo, con il patrocinio della Società Italiana di Genetica Umana (SIGU) e di Osservatorio Malattie Rare.

LO SCENARIO ATTUALE DELLO SCREENING NEONATALE GENOMICO

“La genomica nello screening neonatale è ormai una realtà consolidata a livello europeo e mondiale,” ha spiegato la prof.ssa Cereda. “Si tratta di screening in cui la parte genetica e genomica permette di identificare, fin dal primo livello, patologie di carattere genetico ereditario” (clicca qui o sull’immagine dell’articolo per guardare il video).

Attualmente, nel mondo si contano circa una trentina di progetti di ricerca dedicati allo screening neonatale genomico, sostenuti sia da istituzioni pubbliche che da aziende private. Tuttavia, emerge una problematica fondamentale: la grande eterogeneità di questi progetti.

Ogni progetto ha caratteristiche differenti: il numero di geni analizzati, la tipologia delle malattie incluse e i criteri di selezione variano enormemente,” ha evidenziato l’esperta. “Alcuni progetti si concentrano esclusivamente sulle patologie trattabili, mentre altri considerano anche malattie per cui esistono opzioni terapeutiche in grado di migliorare la qualità di vita del bambino”.

LA SFIDA DELLA STANDARDIZZAZIONE

L’assenza di un approccio uniforme complica l’integrazione dei dati raccolti dai vari progetti. “La difficoltà principale è interconnettere le informazioni generate. Studi con disegni diversi non permettono un confronto omogeneo e ciò rischia di rendere i dati prodotti quasi inutilizzabili,” ha sottolineato Cereda.

Per ovviare a questa criticità, diverse Istituzioni internazionali stanno lavorando alla creazione di una lista condivisa di geni da analizzare nello screening neonatale. “L’ICoNS e altri grandi consorzi stanno cercando di stabilire una consensus list”, ovvero un elenco minimo di geni da includere nei progetti futuri, per garantire che i dati siano confrontabili e utilizzabili in modo efficace,” ha concluso la professoressa.

Lo sviluppo dello screening neonatale genomico rappresenta un’enorme opportunità per la diagnosi precoce di numerose patologie rare. Tuttavia, perché questo progresso possa tradursi in benefici concreti per i pazienti, è indispensabile un lavoro di armonizzazione e condivisione dei dati su scala internazionale. La sfida per il futuro sarà dunque quella di coniugare innovazione e standardizzazione, per rendere lo screening neonatale sempre più efficace e accessibile.

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