Farmaci

Uno studio italiano evidenzia come non vi siano prove del fatto che ACE-inibitori e sartani favoriscano o aggravino l’infezione da SARS-CoV-2

Milano – Sartani e ACE-inibitori, farmaci diffusamente utilizzati per la gestione dell’ipertensione arteriosa, non sono responsabili di una maggiore esposizione al rischio di infezione da COVID-19 o dell’aggravamento dei suoi sintomi. È questa la conclusione di uno studio condotto da un team di ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) e l’Agenzia Regionale ARIA (Azienda Regionale per l'Innovazione e gli Acquisti) che smentisce le allarmanti notizie diffuse nella prima fase dell’epidemia secondo le quali proprio la classe di farmaci antipertensivi avrebbe favorito il rischio di contrarre il virus o comunque contribuito a peggiorarne la sintomatologia.

“Gli antagonisti del recettore dell'angiotensina, i cosiddetti sartani, e gli ACE-inibitori sono tra i farmaci più utilizzati al mondo come trattamenti di prima scelta per il controllo di ipertensione, scompenso cardiaco, malattie renali croniche e altre patologie cardiovascolari. Questi farmaci sono capaci di aumentare l'espressione dell’enzima ACE2, considerato una porta d’ingresso per i virus della famiglia Coronavirus e, da qui, è nata l’ipotesi che i pazienti curati con queste terapie potessero essere maggiormente a rischio di infezione da COVID-19”, commenta Giuseppe Mancia, Professore Emerito all’Università degli Studi Milano-Bicocca. “Lo studio ha invece mostrato che non c’è nessun elemento di evidenza specifico a indicare che chi è in cura con questi farmaci abbia un rischio diverso di contrarre il virus rispetto a chi non è in trattamento. È emerso che, rispetto al gruppo dei controlli, i pazienti affetti da COVID-19 fanno un uso maggiore del 10-13% di ACE-inibitori e sartani, ma anche di altri antipertensivi, come betabloccanti e diuretici, e di altri farmaci come gli antidiabetici. Ciò ha messo in luce che i pazienti che hanno contratto il virus sono quelli che, preferenzialmente, hanno uno stato di salute in qualche modo già compromesso, di cui il maggiore consumo di farmaci è un riflesso”.

Lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica The New England Journal of Medicine, è stato effettuato mettendo a confronto un totale di 6272 casi di pazienti affetti da grave infezione respiratoria determinata dal virus SARS-Cov-2 accertati nel periodo tra il 21 febbraio e l’11 marzo 2020, con 30.759 persone sane (il gruppo di controlli), tutti iscritti nel registro sanitario della Regione Lombardia.

“La pandemia in corso che ha così drammaticamente colpito il nostro Paese e la nostra regione, non solo ha causato in Italia molti contagi e un numero elevato di decessi dovuti al virus, ma sicuramente è responsabile di morti associate e di morti indirette, soprattutto in pazienti con patologie frequenti che rendono gli individui fragili e quindi suscettibili a complicazioni”, spiega Giovanni Apolone, Direttore Scientifico dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. “Fra questi ci sono certamente i pazienti con cancro e quelli con patologie cardiovascolari che ammontano a molti milioni in Italia. Sono quindi in corso parecchi studi per verificare se determinate patologie o determinate terapie aumentano il rischio di contagio e influenzano la prognosi. La possibilità di poter utilizzare i dati provenienti dai flussi e dai data base della Regione Lombardia e il registro COVID regionale ci ha permesso di risalire alla storia clinica e diagnostico-terapeutica dei pazienti fino a 5 anni precedenti lo studio, inclusi tutti gli episodi di ospedalizzazione per diverse malattie, comprese le patologie tumorali, e di poter affermare, con una certa ragionevolezza nonostante il disegno osservazionale dello studio, che la somministrazione di questi farmaci non aumenta il rischio di incorrere nella infezione e di avere una prognosi sfavorevole. Nello stesso numero del The New England Journal of Medicine sono infatti stati pubblicati altri 2 articoli sullo stesso tema basati su dati simili provenienti da altri Paesi che hanno mostrato gli stessi risultati”.

“Ad ogni caso di COVID-19 sono stati appaiati casualmente 5 controlli della stessa età, sesso e comune di residenza. Le informazioni sull'uso di farmaci e sui profili clinici dei pazienti sono state ottenute dalla banca dati regionale di assistenza sanitaria, mentre per tutto il campione è stato utilizzato un indice di prognosi, con uno score da 0 a 4, dove il valore più alto indica uno stato clinico peggiore”, spiega il prof. Giovanni Corrao del Dipartimento di Statistica e Metodi Quantitativi dell'Università di Milano-Bicocca. “La nostra analisi ha evidenziato che i pazienti contagiati dal virus hanno un punteggio più alto nello score e fanno un uso più frequente di farmaci antipertensivi, e sono più affetti da malattie cardiovascolari. Questo suggerisce che le manifestazioni cliniche del contagio si manifestano prevalentemente in individui clinicamente fragili, e tra questi, in pazienti affetti da malattie cardiovascolari e metaboliche. Tuttavia, farmaci come ACE-inibitori e sartani non sembrano avere alcun ruolo diretto nel favorire un maggior rischio di sviluppo o aggravamento dell’infezione”.

Lo studio ha incluso delle sotto-analisi in modo da prendere in considerazione eventuali differenze per sesso o per età (over 60 vs under 60), ma in entrambi casi i risultati sono stati confermati, senza quindi evidenziare differenze significative tra i diversi gruppi. Inoltre, è stata indagata anche l’ipotesi che il rischio per i pazienti in terapia con antipertensivi non fosse solo un aumento della probabilità di essere contagiati dal virus, ma di sviluppare la sintomatologia in forma più severa a causa dell’esposizione ai bloccanti del sistema renina-angiotensina. L’analisi di oltre 600 casi – comprendenti i pazienti ricoverati in terapia intensiva e i deceduti – ha smentito anche quest’ultima ipotesi.

Lo studio rappresenta sicuramente un passo avanti significativo nella conoscenza dell’esposizione al rischio di COVID-19 da parte di pazienti in trattamento con antipertensivi, per i quali questi farmaci rappresentano in molti casi delle terapie salvavita da assumere con continuità.

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