Fra loro Gaia Groppi, che ha raccontato la sua storia nel social talk di OMaR “The Rare Side”
Bergamo – Finalmente Gaia ha potuto spegnere le “luci blu” della lampada a raggi ultravioletti sotto la quale ha dormito per tutta la vita: è stata proprio lei, infatti, la prima delle tre pazienti affette da sindrome di Crigler-Najjar ad essere state curate con successo all’Ospedale di Bergamo con la terapia genica. Gaia Groppi, 28enne di Varese, aveva raccontato a OMaR cosa significa vivere con una rara malattia genetica del fegato, sia in un'intervista del 2018, sia pochi mesi fa nella terza puntata del social talk di OMaR “The Rare Side”. Ed oggi, a una settimana dalla Giornata Internazionale dedicata alla malattia, a spiegare cosa significhi essere guarita sono i suoi occhi (nella foto, prima e dopo la cura).
La sindrome di Crigler-Najjar condiziona la vita fin dalla nascita, perché il fegato di chi è affetto da questa malattia ha un difetto genetico che lo rende incapace di eliminare la bilirubina, il pigmento responsabile del colore giallastro della pelle, tipico delle malattie del fegato. La conseguenza è che la bilirubina si accumula nel sangue e nei tessuti e, se non si adottano misure specifiche per ridurne i livelli, si deposita nel sistema nervoso centrale causando danni cerebrali irreversibili. È come se l’ittero fisiologico dei neonati persistesse per tutta la vita anziché risolversi rapidamente. L’unica strategia per tenere sotto controllo i livelli di bilirubina è sottoporsi a fototerapia a raggi ultravioletti, mentre l’unica procedura per guarire completamente la malattia è sempre stato, finora, solo il trapianto di fegato.
La nuova cura, invece, non prevede alcun intervento chirurgico, ma l’inoculazione di un virus innocuo, il cui corredo genetico è stato sostituito con il gene da correggere. La prima ad essere stata curata con questo approccio innovativo è stata Gaia: era il 18 novembre 2020 quando all’Ospedale di Bergamo le è stato iniettato questo virus, chiamato in gergo tecnico “adeno-associato”, che ha poi raggiunto il fegato ed è entrato nel nucleo delle cellule, liberando il piccolo frammento genetico che si è posizionato accanto al suo DNA. Qui ha iniziato a produrre la proteina che i cromosomi originari non erano in grado di sintetizzare, a causa della mutazione che determina la malattia.
“Per tutta la vita ho dormito ogni notte sotto la luce blu di una lampada a raggi ultravioletti per contenere il più possibile i livelli di bilirubina, scongiurare possibili danni neurologici e cercare di mitigare il colore giallo della pelle, che spesso mi ha creato disagio psicologico e sociale”, ha spiegato Gaia. “Il trapianto di fegato era l'unica soluzione per guarire. Oggi, grazie al progetto CureCN e al team di Lorenzo D'Antiga, la terapia genica per la Crigler-Najjar è una realtà. Qui a Bergamo ho trovato un gruppo che mi ha accompagnato con competenza, attenzione e grande professionalità, trasmettendomi sicurezza e positività. Grazie a ciò non ho avuto paura di affrontare la terapia genica per prima”.
La sperimentazione è avvenuta nell’ambito del progetto internazionale di ricerca denominato “CureCN”, promosso da Généthon (organizzazione non-profit fondata dall'associazione francese contro le distrofie muscolari AFM Téléthon) e finanziato dalla Comunità Europea all’interno del programma “Horizon 2020”. I risultati di questo trial, eseguito per la prima volta con successo nell’uomo, sono stati presentati il 26 giugno scorso dal dr. Lorenzo D'Antiga, Direttore della Pediatria del Papa Giovanni e principal investigator della sperimentazione, all’International Liver Congress della Società Europea di Epatologia (EASL). La presentazione è stata annoverata tra le migliori del congresso e inclusa nella selezione “Best of ILC”.
“Dopo quattro mesi di osservazione abbiamo constatato che la terapia ha permesso di raggiungere l’obiettivo principale che ci eravamo preposti, cioè una riduzione della bilirubina che permettesse la sospensione della fototerapia”, ha spiegato Lorenzo D’Antiga. “Gaia finalmente ha smesso di dormire sotto le lampade blu della fototerapia. Nel frattempo abbiamo trattato altre due pazienti, una delle quali sospenderà la fototerapia in questi giorni. Ora il nostro obiettivo è quello di mantenere l’efficacia a lungo termine”.
Oltre al Papa Giovanni di Bergamo, capofila nell’arruolamento dei pazienti, fanno parte del progetto di ricerca anche TIGEM Pozzuoli (organizzazione non-profit fondata dal Telethon italiano) e gli ospedali universitari di Amsterdam AMC e Parigi Antoine Béclère. I protagonisti di questo risultato sono però perlopiù italiani. Il team di Bergamo, che include oltre a D’Antiga anche la biologa Marina Ferrario e il pediatra Angelo Di Giorgio, ha condotto la fase clinica; la progettazione e la realizzazione del vettore, inclusi tutti i test di laboratorio che ne avevano predetto l’efficacia e la sicurezza, sono state invece sviluppate da Généthon. Fondamentale è stato anche il contributo dell’associazione CIAMI Onlus, che da 30 anni sostiene i pazienti affetti dalla sindrome di Crigler Najjar ed è impegnata nel favorire la ricerca in questo campo.
“Il Papa Giovanni XXIII di Bergamo è tra i centri di riferimento in Europa per la cura delle malattie epatiche nei bambini, comprese quelle rare, che hanno impatti devastanti sulla vita dei bambini e delle loro famiglie”, ha commentato Maria Beatrice Stasi, Direttore Generale dell’ASST Papa Giovanni XXIII. “Qui, in parallelo ad un'intensa attività trapiantologica, sono attivi numerosi progetti di ricerca che non si sono mai fermati nonostante le difficoltà legate alla pandemia. Dall’emergenza sanitaria siamo riusciti anche a trarre insegnamenti importanti, abbiamo dato un contributo fondamentale alle conoscenze sulla malattia da Coronavirus e confermato il contesto internazionale in cui l’Ospedale di Bergamo si posiziona”. Un’attività di studio e di ricerca legate a doppio filo con l’attività di cura, che ha portato la Pediatria di Bergamo a individuare il legame tra Coronavirus e sindrome di Kawasaki: i risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet.
Il gruppo di lavoro del Papa Giovanni XXIII continuerà la sperimentazione della terapia genica su altri malati, per completare il progetto che prevede in totale il trattamento di 17 persone. “Stiamo già lavorando su altre malattie rare del fegato, e speriamo di poter offrire i vantaggi della terapia genica anche a pazienti affetti da altre patologie”, ha concluso D’Antiga.
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