Il prof. Franco Locatelli: “Al Bambino Gesù abbiamo già trattato quattro pazienti, due adulti e due adolescenti, con la terapia genica a base di LentiGlobin, e i risultati sono ottimi”
Roma – L'addio alle trasfusioni per i beta talassemici appare sempre più alla portata dei ricercatori, e due nuovi studi in corso anche in Italia potrebbero addirittura migliorare i già incoraggianti risultati ottenuti. Ma per capire la portata di questi progressi, ottenuti grazie alla terapia genica, occorre fare un passo indietro e inquadrare i problemi nella vita di un talassemico che presto potranno diventare solo un ricordo. Ci aiuta a farlo il prof. Franco Locatelli, Direttore del Dipartimento di Onco–Ematologia e Terapia Cellulare e Genica dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
“La talassemia è la più frequente malattia ereditaria del sangue, provocata da una ridotta o assente sintesi dell'emoglobina. Questa proteina è formata da due catene α e da due catene beta: nei beta talassemici una riduzione o un'assenza delle catene beta crea uno sbilanciamento, con prevalenza di catene alfa, che porta a una mancata formazione dei globuli rossi o alla loro morte precoce (emolisi)”, spiega Locatelli. “Negli ultimi 2-3 decenni la sopravvivenza dei pazienti è aumentata e la loro qualità di vita è migliorata, grazie a emoderivati sicuri e largamente disponibili e a terapie efficaci per la chelazione del ferro, che si accumula a causa delle trasfusioni e provoca danni a vari organi fra cui cuore, fegato e pancreas”.
Finora per i talassemici era disponibile solo il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche, e per chi non poteva sottoporsi a questo trattamento, l'alternativa erano le trasfusioni di sangue, ogni 3 settimane, per tutta la vita. Ora, però, uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha dimostrato che la terapia genica a base di LentiGlobin, prodotta dalla biotech americana bluebird bio, può ripristinare la normale produzione di catene β dell'emoglobina e quindi l'equilibrio. Come riportano i ricercatori del Brigham and Women’s Hospital di Boston, tutti i 22 pazienti affetti da beta talassemia trasfusione-dipendente e sottoposti a terapia genica hanno potuto fare a meno delle trasfusioni o ridurle sensibilmente.
Il procedimento consiste nel prelevare le cellule staminali dal midollo osseo con una procedura detta leucoaferesi, per inviarle a un laboratorio specializzato dove vengono manipolate geneticamente con l'inserimento di una copia normale del gene. Il paziente viene poi sottoposto a chemioterapia e gli vengono reinfuse le cellule, che portano al ripristino dell'emoglobina. “Già in passato era stato descritto questo trattamento su un paziente, ma si trattava di un singolo caso, ora sono 22 e diventano un numero importante. In particolare, 12 pazienti su 13 con genotipo beta+, che hanno quindi una produzione residua di emoglobina, si sono potuti liberare dalla dipendenza dalle trasfusioni, mentre i pazienti con genotipo beta0, nei quali l'emoglobina è del tutto assente, le hanno ridotte in maniera significativa, del 73%”, prosegue il prof. Locatelli.
Risultati entusiasmanti, ma fra soli due mesi la comunità scientifica potrà ascoltarne anche di migliori: da più di un anno, infatti, sono in corso anche al Bambino Gesù di Roma due studi multinazionali guidati in Italia dal prof. Locatelli, che presenterà i risultati al congresso annuale dell'Associazione Europea di Ematologia, che si svolgerà a Stoccolma dal 14 al 17 giugno.
“Il primo studio si chiama HGB207 e riguarda i pazienti beta+ (con produzione residua di emoglobina), mentre il secondo, HGB212, interessa i pazienti beta0 (con emoglobina assente). Abbiamo già trattato quattro pazienti, due adulti e due adolescenti, con la terapia genica a base di LentiGlobin, e i risultati sono ottimi. Questi studi – sottolinea Locatelli – fanno presagire risultati addirittura migliori di quelli appena pubblicati sul New England Journal of Medicine: crediamo che anche i pazienti con totale assenza di emoglobina potranno fare a meno delle trasfusioni. Un risultato che, oltretutto, è stato ottenuto anche in pazienti adulti, nei quali il trapianto allogenico di solito non viene considerato a causa degli alti rischi”.
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