Spesso le indagini per distinguere le forme secondarie da quelle primarie non vengono correttamente eseguite, riferendo agli specialisti qualsiasi caso di rialzo del numero di eosinofili
Alcune volte tendiamo a sottovalutare sintomi all’apparenza ‘minori’, proprio come ha fatto Grace - il nome è di fantasia - che per un anno ha convissuto con un intenso prurito, peraltro non accompagnato da eruzione cutanea. Inizialmente il fastidioso sintomo era confinato alle caviglie ma poi si è esteso alle gambe, rendendole difficile persino indossare i pantaloni. Ritenendo che potesse trattarsi di una forma allergica, Grace ha assunto degli antistaminici che, tuttavia, non hanno prodotto alcun beneficio. Solo a distanza di diverso tempo si è sottoposta alle analisi del sangue che hanno evidenziato un calo dei globuli rossi e delle piastrine e un incremento di una particolare sotto-popolazione di globuli bianchi: gli eosinofili. Il medico ha allora sospettato una sindrome ipereosinofila e inviato Grace da un ematologo.
Il caso di Grace è descritto sulla rivista Haematology nel quadro di un programma di educazione alla patologia condotto della Società Americana di Ematologia e contribuisce a far capire - a tutti, ma soprattutto ai medici di medicina generale - come la diagnosi di una forma primitiva di ipereosinofilia si raggiunga dopo vari esami, necessari per escludere possibili altre cause legate al rialzo degli eosinofili. “Lo scoglio più grosso è dato dall’esistenza di forme secondarie di ipereosinofilia collegate ad allergie, parassitosi, malattie autoimmuni o tumori”, afferma il professor Emanuele Angelucci, Direttore dell’U.O.C di Ematologia e Centro Trapianti presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova. “Tali possibili cause dovrebbero essere accuratamente valutate ed escluse prima dell’invio allo specialista ematologo di quanti presentino un innalzamento del numero di eosinofili”.
Infatti, la sindrome ipereosinofila primitiva è una patologia contraddistinta dal rinvenimento di un valore degli eosinofili nel sangue periferico superiore a 1500/mmc che perduri da almeno 1 mese, accompagnato da una quota di eosinofili superiore al 20% di tutte le cellule nucleate in una sezione del midollo osseo e/o un’estesa infiltrazione eosinofila del tessuto (un dato presente sul referto istopatologico) e/o una massiccia deposizione extracellulare delle proteine dei granuli eosinofili nei tessuti. “Una condizione di questo genere può rientrare nel settore delle sindromi mieloproliferative croniche”, prosegue Angelucci. “Ma per esserne certi occorre prima depennare le cause di ipereosinofilia secondaria”.
La sindrome ipereosinofila può produrre manifestazioni di vario tipo - dermatologiche, polmonari, gastrointestinali, oculari, neurologiche - perciò è fondamentale che il medico di medicina generale (che per primo vede il paziente) inizi a esplorare l’origine di tali sintomi. “È fondamentale ricostruire l’anamnesi del paziente, inclusa la storia famigliare, i viaggi effettuati e i farmaci assunti in precedenza”, chiarisce Angelucci. “Quindi si eseguono i test allergici e la ricerca di parassiti [specialmente gli elminti, N.d.R.] accompagnati dagli esami ematologici, che comprendono un emocromo, il dosaggio della vitamina B12, della triptasi, delle IgE totali e strumentali, come l’ecocardiografia, l’ecografia dell’addome alla ricerca di organomegalie. Nel caso in cui l’ipereosinofilia si protragga nel tempo e a fronte di un esito negativo per tutti gli esami elencati, il paziente deve essere inviato all’ematologo, che richiede l’esecuzione del test genetico per la ricerca di mutazioni nei geni PDGFRA, PGFRB e FGFR1 e, in particolare, della fusione FIP1L1-PDGFRA. “Quest’ultima alterazione è associata alla produzione di una proteina che manda continui segnali di crescita alle cellule, determinando una sovrapproduzione di eosinofili”, precisa l’ematologo genovese. “Il test può essere eseguito a partire da un campione di sangue periferico e, generalmente, si esegue presso i laboratori di analisi dei maggiori centri ematologici”. In caso di responso positivo, il paziente viene preso in carico e avviato al trattamento con imatinib mesilato o altri farmaci inibitori dell’enzima tirosin-chinasi.
Una volta completate le indagini sopra menzionate ed escluse le forme di ipereosinofilia reattiva e clonale, si può parlare allora di sindrome ipereosinofila idiopatica, entità che rappresenta dunque una diagnosi di esclusione che ancora oggi comprende 3/4 di tutte le presentazioni di ipereosinofilia. Ad alimentare questa categoria è sicuramente la difficoltà di realizzare tutte le indagini necessarie, che richiedono interdisciplinarità, risorse di laboratorio (sierologie, genetica, ecc.) e conoscenze di malattie, anche molto rare, associate ad ipereosinofilia (sindrome IgG4, mastocitosi, sindrome ipereosinofila T variante, sindromi linfoproliferative autoimmuni, ecc.), che non tutti gli ospedali/regioni hanno messo a punto.
È il caso di Grace, risultata negativa al test genetico per FIP1L1-PDGFRA e inizialmente trattata con farmaci corticosteroidei (prednisone) sino alla scomparsa dei sintomi. Purtroppo, alla sospensione del farmaco il prurito si ripresentava sempre. Grace è stata anche sottoposta a trattamento con idrossiurea e interferone per lungo tempo, sino a che i medici non hanno avuto la possibilità di somministrarle una terapia a base di anticorpi monoclonali, come mepolizumab e benralizumab. “Farmaci di questo tipo hanno cambiato radicalmente l’approccio alla malattia”, spiega Angelucci, con riferimento al fatto che questa classe di molecole, dirette contro l’interleuchina 5 (IL-5), ha mostrato una grande utilità nel trattamento delle forme idiopatiche della sindrome ipereosinofila. “In linea generale a prescriverli è l’ematologo ma possono essere somministrati anche dallo specialista reumatologo o immunologo, nel caso si trovino a dover gestire questo tipo di pazienti”. Infatti, la diversità dei sintomi che sottendono la sindrome ipereosinofila conduce coloro che ne sono affetti verso vari specialisti, rendendo arduo avere un’idea di quanto questa condizione sia diffusa sul territorio.
“L’ematologo segue prevalentemente i pazienti che riportano una positività al test genetico, aspetto che configura la presenza di una vera e propria patologia ematologica, definita dai parametri già indicati”, conclude Angelucci. “Ma la difficoltà è far arrivare ai reparti di ematologia coloro che sono affetti da un disturbo di questo genere, lasciando ai medici di medicina generale il compito di indagare ed escludere le altre cause di ipereosinofilia”. Un’operazione tutt’altro che semplice, che prevede innanzitutto la promozione di una corretta e aggiornata informazione sulle cause dell’ipereosinofilia e sui metodi per giungere a una diagnosi della sindrome ipereosinofila; e in seconda battuta l’avvio di percorsi specifici per i malati che possano essere indirizzati verso i centri di riferimento sul territorio e presi in carico da personale qualificato.
Purtroppo, la storia di Grace non ha avuto un lieto fine: pur avendo trovato sollievo dal trattamento con gli anticorpi monoclonali, ha successivamente sviluppato una nuova sintomatologia e, a distanza di quasi 10 anni dalla prima diagnosi, ha sviluppato un linfoma angioimmunoblastico a cellule T che, nonostante il trattamento chemioterapico, è progredito sino a portarla al decesso. La sindrome ipereosinofila è una malattia eterogenea e assai complessa, pertanto un approccio a tutto campo risulta imprescindibile al fine di valutare il coinvolgimento dei vari organi e stabilire l’eziologia della malattia, individuando così il sottotipo giusto e facendo assumere al paziente una terapia adeguata che garantisca allo stesso tempo il miglior risvolto prognostico.
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