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Intervista-video al prof. Paolo Ventura, Responsabile del Centro Porfirie presso l’UOC di Medicina Interna dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena

Sono classificate come difetti congeniti o acquisiti della biosintesi dell’eme e, a seconda della sede, sono dette eritropoietiche oppure epatiche. Sono le porfirie, malattie rare che conducono all’accumulo di metaboliti tossici a livello del midollo osseo o del fegato. Al convegno “Vivi Porfiria: Conoscenza, condivisione e cura”, organizzato a Milano lo scorso novembre dall’associazione Vivi Porfiria, l’obiettivo principale è stato quello di fare informazione su queste patologie, discutendo sia di tematiche scientifiche che di problematiche legali di ampio interesse per i malati e i loro familiari.

Il gruppo eme partecipa ad un’ampia serie di funzioni cellulari ed è coinvolto nello scambio di ossigeno, nel trasporto di elettroni, nell’ossidazione dei composti esogeni ed endogeni e nel metabolismo delle perossidasi e delle catalasi. Ciò implica che difetti a carico di questo complesso di proteine possano avere conseguenze a livello di diversi organi. “Le porfirie epatiche costituiscono un sottogruppo di porfirie in cui il difetto si localizza prevalentemente a livello del fegato”, spiega Paolo Ventura, professore presso UNIMORE e Responsabile del Centro Porfirie presso l’UOC di Medicina Interna dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena (clicca qui o sull’immagine dell’articolo per guardare la video-intervista). “A loro volta si distinguono due gruppi, le porfirie acute con manifestazioni neuroviscerali e le porfirie cutanee tarde, con manifestazioni a livello della cute. Nelle porfirie eritropoietiche, invece, il difetto è localizzato prevalentemente a livello del midollo eritroide”.

La diagnosi di porfiria è complicata e, come accade troppe volte nel campo delle malattie rare, può giungere anche con notevole ritardo: ciò ha un impatto gravoso sull’esistenza dei malati, spesso non compresi nel loro malessere. “La diagnosi di porfiria va sospettata clinicamente, cosa non sempre facile visto l’ampio spettro di sintomi con cui la malattia si presenta”, afferma ancora Ventura. A livello biochimico la diagnosi si fa cercando la presenza di specifiche sostanze in eccesso nei liquidi biologici, cioè nel sangue o nelle urine. “Il tipo particolare di sostanza o l’insieme di sostanze individuate permette di definire con maggior precisione la forma di porfiria con cui abbiamo a che fare”, precisa l’esperto. La presenza di uroporfirine, ad esempio, depone per la diagnosi di porfiria eritropoietica, mentre la porfiria cutanea tarda si contraddistingue per il riscontro di uroporfirine e dell’enzima 7-carbossil-porfirina.

Esistono differenti tipi di trattamento, a seconda del tipo di porfiria”, chiarisce Ventura. “Per le porfirie cutanee le terapie sono soprattutto di tipo sintomatico, atte ad aumentare la protezione della cute dalle radiazioni solari. Per quanto riguarda le porfirie epatiche, invece, sono oggi disponibili dei farmaci in grado di prevenire l’accumulo delle sostanze tossiche responsabili della patologia”.

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