Professor Alfonso Altieri (Roma): “il medico non immagina di trovarsi al cospetto di questo genere di patologia fino a che non insorge un sintomo come l’emottisi, considerato un campanello d’allarme anche per altre patologie quali la tubercolosi”
In uno studio tedesco sui micobatteri non tubercolari da poco pubblicato sulle pagine della rivista The European Respiratory Journal, un gruppo di ricercatori, impegnato a stabilire il carico di malattia che le infezioni sostenute da questi organismi comportano, specifica come siano state testate almeno 39 combinazioni di antibiotici per curarle, la maggior parte delle quali somministrate ad intervalli di tempo molto ravvicinati. A significare che l’unica costante nel trattamento delle malattie polmonari da micobatteri non tubercolari è l’incertezza.
Come ben specificato nell’articolo, l’incidenza di queste malattie nel mondo è drammaticamente aumentata negli anni e con essa anche i costi di ospedalizzazione dei pazienti e, purtroppo, il tasso di mortalità. Secondo i dati presentati, la mortalità nei pazienti affetti da pneumopatie da micobatteri non tubercolari è risultata di dieci volte maggiore rispetto a quanto registrato nel gruppo di controllo e la spesa sanitaria per il trattamento dei malati è stata calcolata in un carico quattro volte maggiore. Sono dati inquietanti per una patologia che si potrebbe definire 'silenziosa' ma capace di incidere profondamente, specie in soggetti immunodepressi, affetti da HIV o malati di fibrosi cistica. “Questa non è una malattia ad esordio acuto ma dall’andamento sordido, non particolarmente eclatante”, spiega il prof. Altieri, pneumologo in forza all’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma. “I classici sintomi che possono far sospettare una malattia infettiva sono la tosse cronica, il dimagrimento e un generale peggioramento del quadro del paziente, ma il medico non immagina di trovarsi al cospetto di questo genere di patologia fino a che non insorge un sintomo come l’emottisi (emissione di sangue dalla bocca), considerato un campanello d’allarme anche per altre patologie quali la tubercolosi”.
Uno dei principali motivi per cui il paziente va incontro all’emottisi è la presenza di bronchiectasie, riconoscibili con la radiografia del torace. La documentazione radiografica può porre il medico di fronte ad alcuni quadri particolari, necessari per avviare l’iter diagnostico: la presenza di noduli, di forme escavate o di bronchiectasie diffuse costituisce un solido punto di partenza per la diagnosi. “Le micobatteriosi non tubercolari sono figlie della tecnologia – prosegue Altieri – e, in modo particolare, delle TAC ad alta risoluzione e delle metodiche di amplificazione genica, che dopo la scoperta del DNA del micobatterio tubercolare hanno contribuito ad individuare altri 150 batteri non tubercolari. Queste due metodiche, infatti, costituiscono un valido armamentario medico con cui definire il quadro anatomo-patologico in cui più facilmente si riscontra la presenza di micobatteri non tubercolari”. Tuttavia, il riconoscimento dell’agente batterico responsabile del peculiare quadro radiografico passa attraverso il contributo del microbiologo che analizza il secreto bronchiale: il micobatterio non tubercolare deve essere isolato dal bronco-aspirato, se isolato da espettorato sono obbligatorie tre dimostrazioni consecutive della sua presenza per confermare la diagnosi (clicca qui per approfondire l'argomento).
I microbiologi, i radiologi e i clinici devono lavorare di concerto per collegare ognuno di questi quadri, anche se non è sempre facile o chiaro il modo in cui annodare il sottile filo che dovrebbe tenere insieme queste valutazioni. “Ad esempio, la linea di condotta del microbiologo cambia a seconda che egli debba cercare i batteri comuni o i micobatteri”, continua l’esperto. “Il medico deve supportare la richiesta specifica di ricerca dei micobatteri. E, a questo punto, si ritorna al fatto che la patologia non è sufficientemente conosciuta. Se non insorge il dubbio su che cosa provochi il dimagrimento del paziente o il peggioramento radiografico, nonostante al soggetto sia già stata somministrata una terapia antibiotica adeguata per posologia o per scelta di antibiotico, il problema non sarà mai risolto. Una grossa responsabilità dello specialista è far si che la gran parte dei medici giunga a conoscere la patologia e si ponga il dubbio sull’eventualità o meno di averla di fronte”.
Una volta identificata la patologia sarà possibile impostare una terapia, che risulta comunque di altissima complessità, dal momento che, sfortunatamente, buona parte dei micobatteri non tubercolari è resistente ai comuni antibiotici. Esclusi alcuni micobatteri non tubercolari come il Mycobacterium gordonae, che non è patogeno, gli altri vanno trattati, ma le Linee Guida disponibili e i loro stessi aggiornamenti risultano ancora vaghi e, sotto certi aspetti, anche discutibili. Molto spesso accade che la sensibilità di un antibiotico nei test in vitro sia differente da quella derivante dai test in vivo. Ciò significa che un antibiotico può essere utile in un caso e completamente inutile in un altro. I trattamenti richiedono pertanto cocktail di antibiotici, somministrati per periodi di tempo prolungati: la claritromicina è uno degli antibiotici più sfruttati ed è usata anche per il trattamento dell’infezione da Mycobacterium avium complex (MAC), uno dei più aggressivi e pericolosi. Tuttavia, lo studio tedesco citato all’inizio ha dimostrato che la combinazione di claritromicina ed etambutolo non è di per sé sufficiente a trattare una pneumopatia da micobatteri non tubercolari, indipendentemente dal tipo di batterio da cui sia provocata.
“Una volta iniziato il trattamento, il paziente e il medico si devono, per così dire, fidanzare”, conclude Altieri. “Sarà un rapporto molto lungo e, purtroppo, non sempre destinato a finire bene, perché le terapie si protraggono molto e sono gravate da effetti collaterali: invitare un paziente a un trattamento di 15 mesi, per poi dovergli spiegare che potrebbe durare anche di più o potrebbe non sortire effetto, mina la fiducia del rapporto medico-paziente e la compliance del trattamento. Il paziente, infatti, può pensare di non essere stato correttamente inquadrato o che la diagnosi non sia giusta. Quando poi ci si trova davanti a un trattamento ben condotto dal medico e dal paziente all’interno del quale sono stati rispettati tutti i criteri, incluso il prolungamento della terapia anche dopo la constatazione di negatività dell’espettorato, ma la malattia si ripresenta, sorge un dubbio: ci troviamo in presenza di una recidiva o di una nuova infezione? È qui che la questione diventa complicata per davvero”.
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