Il Prof. Alberto Zambon (Padova) spiega come riconoscere questa rarissima malattia genetica
PADOVA – “L’iperchilomicronemia è una malattia rarissima: parliamo di 1-2 persone su un milione, anche se sono dati che dovrebbero essere rivalutati, in quanto sottostimati”. A dichiararlo è il Prof. Alberto Zambon, Responsabile del Centro Prevenzione Aterosclerosi della Clinica Medica 1, presso il Policlinico Universitario di Padova: il suo è il centro di riferimento per la malattia nel Nord Italia.
Questo disordine metabolico dei trigliceridi si trasmette dai genitori ai figli e determina un deficit in un enzima chiamato lipoproteina lipasi. Gli eterozigoti sono asintomatici o hanno una sintomatologia molto lieve, senza pancreatiti acute, mentre nel caso della patologia di tipo omozigote si ha un aumento importante dei trigliceridi, solitamente superiori a 1000 mg/dl, ma che possono raggiungere anche i 5-6.000 mg/dl. Fino ad arrivare ai 12.000 mg/dl riscontrati dal Prof. Zambon in una paziente canadese, nel corso del suo lavoro a Seattle.
“La malattia – spiega il lipidologo – si manifesta dai primi anni di vita, con coliche addominali ed episodi ricorrenti di pancreatite acuta, una condizione che mette il paziente in pericolo di vita e che necessita di cure intensive. I malati spesso affrontano diversi ricoveri ospedalieri prima che l’iperchilomicronemia venga riconosciuta. Spesso i pediatri sono i primi a diagnosticarla, anche se non è semplice a causa della sua rarità e per il fatto che il dolore addominale può essere dovuto a tante altre cause. Altri sintomi sono l’epatosplenomegalia (l’aumento di volume del fegato e della milza), la steatosi epatica e gli xantomi eruttivi (foruncoli biancastri su braccia, natiche e schiena dovuti all’accumulo di trigliceridi). Anche l’analisi del fondo dell’occhio può evidenziare delle arterie rosacee, la cosiddetta lipemia retinalis”.
Per avere la conferma si procede alla misurazione dei trigliceridi a digiuno: se il plasma, al prelievo, si presenta lattescente, si può già ipotizzare che ciò sia dovuto a un’eccessiva concentrazione di particelle grasse dette chilomicroni. Occorre però escludere le cause secondarie di ipertrigliceridemia (che ne rappresentano la maggior parte): l’abuso di alcool, il diabete e l’uso di alcuni farmaci come gli steroidi, le terapie estrogeniche o lo Zoloft.
“Un altro metodo – continua il professor Zambon – è la misurazione dell’attività della lipoproteina lipasi, che si effettua iniettando eparina per separarla dai vasi: se l’enzima non risulta misurabile oppure è ridottissimo, si tratta di iperchilomicronemia. La conferma può arrivare anche dalla ricerca della mutazione genetica: ad oggi sono note più di 200 mutazioni, ma a volte non è possibile identificarla, e ciò suggerisce ce ne siano altre ancora sconosciute”. In Italia è possibile effettuare la diagnosi genetica nei centri di Genova, Modena, Roma e Palermo.
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