Il dato emerge da uno studio effettuato al Policlinico Gemelli: gli esperti ribadiscono comunque la necessità di sottoporre i pazienti a vaccinazione
Roma - Dallo scorso anno, la vita di tutti è cambiata grazie all’introduzione dei vaccini anti-COVID, ai quali è stata garantita la priorità di accesso alle persone più fragili che, in caso di infezione da SARS-CoV-2, avrebbero le conseguenze peggiori. Tra queste, i pazienti con fibrosi polmonare idiopatica (IPF), una malattia rara dalla prognosi impegnativa. Si stima che a essere affette da questa condizione in Italia possano essere circa 30-50.000 persone. La malattia progredisce gradualmente con sviluppo di insufficienza respiratoria, e il suo decorso può essere caratterizzato da momenti di crisi gravi, dette esacerbazioni (o riacutizzazioni), che sono gravate di una mortalità intraospedaliera che va dal 50 all’80 per cento.
“La IPF – spiega il professor Luca Richeldi, direttore della UOC di Pneumologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Pneumologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma - è caratterizzata da aggravamenti acuti delle condizioni cliniche, che sono a loro volta idiopatici; in alcuni casi sono stati collegati a una causa infettiva o a una trombo-embolia polmonare; le vere forme di riacutizzazione acuta di malattia hanno una mortalità fino all’80% e rappresentano la principale causa di morte di questi pazienti, che peggiorano rapidamente nell’arco di qualche settimana. Non c’è una terapia specifica; vengono utilizzati corticosteroidi ad alte dosi, con risultati abbastanza scarsi. Si tratta di eventi catastrofici che è bene intercettare tempestivamente. Tutti i nostri 300 pazienti sono allertati sul fatto che un peggioramento rapido dei sintomi richiede un’allerta precoce al medico curante o l’invio in pronto soccorso”.
Così come non è nota l’eziologia della IPF, allo stesso modo non si conoscono le cause scatenanti delle esacerbazioni, anche se si annoverano tra i fattori di rischio le infezioni virali, l’esposizione a tossici ambientali e a polveri. Uno studio appena pubblicato sull’American Journal of Respiratory and Critical Care Medicine dal dottor Giacomo Sgalla, dal professor Luca Richeldi e colleghi della UOC di Pneumologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, aggiunge però un’importante informazione. Su 10 pazienti ricoverati nel 2021 per un episodio di esacerbazione nell’ambito di una fibrosi polmonare idiopatica, presso la Fondazione Policlinico Gemelli, che è uno dei più importanti centri di riferimento in Italia per questa patologia, quattro presentavano un rapporto temporale con la somministrazione di un vaccino a mRNA anti-COVID, avvenuta qualche giorno prima dell’episodio. In un paziente l’episodio di esacerbazione si è verificato dopo la prima dose, in uno dopo la seconda dose e nei restanti due dopo la dose booster.
“La vicinanza temporale tra somministrazione del vaccino (effettuato tra 3 e 5 giorni prima) e l’inizio dei sintomi - commenta il dottor Sgalla - indica il vaccino anti-COVID come il più probabile trigger dell’esacerbazione acuta”. Al momento del ricovero, questi pazienti presentavano indici di infiammazione elevati; alla TAC era evidente un impegno diffuso dell’interstizio polmonare. Tutti sono stati sottoposti a trattamento con alti flussi di ossigeno e ad elevate dosi di cortisonici. Nonostante la tempestiva terapia, due di questi pazienti sono deceduti durante il ricovero.
“In questo studio – prosegue Sgalla – abbiamo descritto un evento raro verificatosi nell’ambito di una patologia rara; nel nostro centro seguiamo oltre 300 pazienti con IPF, che sono stati tutti sottoposti a vaccinazione anti-COVID. Solo quattro di loro sono stati ricoverati per una riacutizzazione a distanza di pochi giorni dalla vaccinazione anti-COVID. Queste riacutizzazioni dopo vaccino non sembrano presentare caratteristiche peculiari. È possibile che, in alcuni di questi pazienti, la liberazione di citochine infiammatorie, causata dalla vaccinazione, possa aver fatto da innesco di questa esacerbazione acuta. Nelle linee guida internazionali sulla IPF, ad oggi, le vaccinazioni non sono elencate tra i fattori di rischio delle esacerbazioni. Tuttavia, considerato che casi simili, anch’essi molto rari, sono stati segnalati anche dopo vaccinazione antinfluenzale H1N1, suggeriamo di inserire nella lista dei possibili fattori di rischio per riacutizzazioni di IPF anche le vaccinazioni anti-virali”.
“Lo scorso anno - conclude il professor Richeldi - tra i pazienti riacutizzati ricoverati nel nostro centro, abbiamo individuato un piccolo numero di casi, accomunati dal fatto di aver effettuato di recente la vaccinazione anti-COVID. Non si tratta certo di una dimostrazione di causa-effetto, ma di una correlazione temporale che abbiamo voluto segnalare per due motivi. Il primo è che i vaccini a mRNA anti-COVID sono vaccini nuovi, che noi suggeriamo di annoverare tra le potenziali cause di una riacutizzazione. L’altro è per allertare i medici che seguono questi pazienti del fatto che c’è una possibilità, anche se molto remota, che il vaccino possa scatenare una riacutizzazione. Ribadiamo tuttavia la necessità che questi pazienti effettuino, e in modo prioritario, la vaccinazione anti-COVID, perché un’eventuale polmonite interstiziale da COVID, su un paziente che ha già una patologia interstiziale come la IPF, può avere effetti catastrofici. Quindi, in conclusione, il rapporto costo-beneficio rimane largamente in favore della vaccinazione anti-COVID e del ciclo completo (3 dosi complete o 4 per chi ha superato gli 80 anni). Sapere che esiste la possibilità di una riacutizzazione è un’informazione in più che abbiamo oggi. Questi pazienti vanno sorvegliati strettamente soprattutto nelle prime due settimane dopo la vaccinazione, anche da remoto, con un approccio di teleassistenza (tele-saturimetria), per evidenziare tempestivamente delle desaturazioni delle quali, magari, il paziente non percepisce subito la portata, ma che sono importanti”.
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