Dottoressa Antonella Caminati

Grazie alle nuove terapie è possibile rallentare il decorso della patologia

Si stima che la fibrosi polmonare idiopatica (IPF) riguardi circa 3 milioni di persone nel mondo, di cui circa 15.000 in Italia, dove si registrano circa 4.500 nuovi casi ogni anno. È classificata come una malattia rara (anche se, tra le patologie interstiziali, è una delle più frequenti) e causa la formazione di tessuto cicatriziale a livello polmonare, con conseguente deterioramento graduale e irreversibile della funzionalità respiratoria. La IPF è quindi una patologia cronica e progressiva che si manifesta, tipicamente, intorno ai 55-60 anni di età: in assenza di trattamento, la sopravvivenza media dei pazienti varia tra i 3 e i 5 anni dal momento della diagnosi.

Visto il carattere altamente progressivo della patologia, uno dei punti più delicati è la diagnosi, come spiega la Dr.ssa Antonella Caminati, dell’Unità Operativa di Pneumologia dell'Ospedale San Giuseppe di Milano: “I sintomi sono piuttosto aspecifici, e sono perciò frequentemente confusi con quelli di altre patologie respiratorie più comuni, come la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BCPO), e comprendono mancanza di respiro (che compare prima durante sforzi intensi, poi durante quelli più lievi e infine a riposo), insufficienza respiratoria e tosse secca”. Per questo motivo, la diagnosi precisa e puntuale è difficoltosa, anche quando sono convolti pneumologi e radiologi esperti. “Ci sono, infatti, dei riscontri dalla TAC ad alta risoluzione che sono caratteristici, ma in alcuni casi la diagnosi differenziale con altri disturbi (come la polmonite interstiziale non specifica o le patologie polmonari legate a malattie quali l’artrite reumatoide o la sclerosi sistemica) è molto complicata”.

Fortunatamente, negli ultimi 15-20 anni c’è stato un forte aumento dell’interesse da parte della comunità medica e scientifica nei confronti della IPF. Questa accresciuta consapevolezza ha portato all’evoluzione dei trattamenti a disposizione per rallentare il decorso della malattia. “Inizialmente, il trattamento classico era a base di immunosoppressori e steroidi, anche ad alto dosaggio, ma si è osservato che queste terapie non solo non avevano vantaggi, ma presentavano anche gravi effetti collaterali”, spiega ancora la Dr.ssa Caminati. “C’è stato poi un certo periodo in cui si seguiva il paziente ma senza una reale opzione terapeutica, se si escludeva il trapianto polmonare. Negli ultimi anni, infine, sono stati effettuati una serie di studi multicentrici, randomizzati, prospettici e in doppio cieco che hanno portato allo sviluppo di due farmaci, che sono quelli attualmente approvati con indicazione specifica per la fibrosi polmonare idiopatica: il pirfenidone e il nintedanib”.

Si tratta di due antifibrotici, che i pazienti possono ritirare nei centri di riferimento per il trattamento della IPF (e non, quindi, nelle normali farmacie); il pirfenidone ha un meccanismo d’azione ancora non del tutto chiarito, mentre il nintedanib è un inibitore del trasforming growth factor, una molecola chiave nella cascata di reazioni che contribuisce al processo fibrotico. Entrambe queste molecole, è bene ricordarlo, non rappresentano purtroppo una cura della patologia, ma contribuiscono comunque al rallentamento della sua progressione, agendo sui parametri di funzionalità respiratoria. “Dopo un anno di terapia, se la funzionalità respiratoria, registrata attraverso test specifici che vengono ripetuti a cadenza mensile o trimestrale, si conferma stabile, allora si tratta già di un successo terapeutico”, sottolinea Caminati. “Anche se importantissimo, questo è spesso un messaggio difficile da veicolare al paziente, sia perché i sintomi come la tosse rimangono di frequente pressoché invariati, sia perché questi medicinali, a volte, comportano effetti collaterali, soprattutto di natura gastrointestinale”.

La ricerca medico-scientifica sulla IPF, tuttora attiva anche grazie a una serie di studi clinici in corso a livello internazionale, ha quindi permesso, negli ultimi decenni, di migliorare l’aspettativa e la qualità di vita dei pazienti; la speranza è che sia possibile giungere, in un futuro non troppo lontano, ad una vera e propria cura per la malattia.

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