Il prof. Claudio Rapezzi (Bologna): “Quanto più i depositi progrediscono, tanto più le pareti del cuore diventano spesse e rigide e la funzione contrattile peggiora”
BOLOGNA – Sono circa trenta le proteine che, negli esseri umani, possono formare depositi di amiloide, virtualmente in qualsiasi parte del corpo. Le amiloidosi rappresentano le sindromi cliniche che risultano da questi depositi e vengono classificate in localizzate o sistemiche, acquisite o ereditarie: è importante un buon inquadramento “caso per caso” che porti ad una diagnosi eziologica precisa, data la variabilità della storia naturale e dei trattamenti tra le varie forme cliniche, che vanno da depositi asintomatici a malattie localizzate, fino a forme sistemiche rapidamente fatali che possono colpire più organi vitali contemporaneamente.
Il cuore rappresenta uno degli organi bersaglio in cui più frequentemente l’amiloide si deposita, dando luogo alla cosiddetta “amiloidosi cardiaca”. Uno dei maggiori esperti di questa forma è il prof. Claudio Rapezzi, direttore dell'U.O. di Cardiologia del Policlinico S. Orsola-Malpighi di Bologna, che ne ha parlato nel corso del congresso dal titolo “Cardiomiopatie rare e scompenso cardiaco: cosa dobbiamo sapere e come dobbiamo trattarle”, che si è svolto il 31 marzo e il 1 aprile a Giardini Naxos (Messina).
Le forme di amiloidosi che più frequentemente coinvolgono il cuore in maniera significativa sono l’amiloidosi AL e l’amiloidosi da transtiretina (amiloidosi ATTR). “In questa condizione, quanto più i depositi progrediscono, tanto più le pareti del cuore diventano spesse e rigide e la funzione contrattile peggiora”, spiega Rapezzi. “A parte il tessuto miocardico, l’infiltrazione può coinvolgere anche gli apparati valvolari e il sistema di conduzione elettrico”.
Rimane ad oggi incerta la reale incidenza dell’amiloidosi cardiaca, che ancora risulta difficile da diagnosticare a causa della varietà e complessità dei possibili quadri di presentazione. “Ciò nonostante l’interesse della comunità medica e scientifica internazionale nei confronti della malattia è decisamente cresciuto consentendo la messa a punto di un iter diagnostico che parte dal sospetto clinico e da esami di primo livello, quali elettrocardiogramma, ecocardiogramma ed esami di laboratorio, per arrivare alla conferma diagnostica attraverso indagini più sofisticate, come risonanza magnetica, scintigrafia e biopsia”, prosegue il prof. Rapezzi.
Conoscere e riconoscere la malattia risulta estremamente importante in rapporto alla recente disponibilità di “terapie eziologiche” (orientate a prevenire, arrestare o riassorbire il deposito della sostanza amiloide) che si aggiungono alle “terapie di supporto” da tempo utilizzate per il trattamento delle complicanze, tra cui lo scompenso cardiaco.
C'è infine la possibilità, per i membri della famiglia di un paziente affetto da amiloidosi ereditaria, di sottoporsi ad un test genetico. “In generale – conclude Rapezzi – si ritiene che sia importante per i familiari sapere se sono a rischio o no di sviluppare la malattia, per dar loro la possibilità di beneficiare di un monitoraggio costante nel tempo, che potrebbe identificare precocemente le sue primissime manifestazioni”.
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