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Aflibercept ha dimostrato la stessa efficacia degli anticorpi monoclonali. Si riducono le iniezioni e i rischi senza rinunciare ai benefici.

MILANO - Agisce come una pinza che lega e avvolge completamente i suoi bersagli, i recettori per il fattore di crescita endoteliale VEGF e il fattore di crescita placentare PIGF, bloccando la loro azione nel meccanismo patologico della degenerazione maculare ‘umida’, la forma più grave di questa patologia oculare che colpisce dall’8 all’11% delle persone tra i 65 e i 74 anni e fino al 35% degli ultra-settantacinquenni. Aflibercept è l’ultima strategia a disposizione degli oculisti per trattare la degenerazione maculare legata all’età dopo la rivoluzione portata nel trattamento terapeutico dagli anticorpi monoclonali.

La degenerazione maculare è una malattia associata prevalentemente all’età quando, con il passare degli anni, la retina si consuma pregiudicando la visione ottimale. In particolare, la forma ‘umida’ – altrimenti detta neovascolare – è caratterizzata da una crescita anomala di vasi sanguigni che, dagli strati più profondi dell’occhio, si espandono sotto la retina, sollevandola e causando la formazione di edemi. La responsabilità di queste anomalie è da imputare, grazie a scoperte precedenti, a VEGF e PIGF, due fattori di crescita che, quando difettosi, stimolano la formazione e lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni. Le terapie attualmente disponibili sono rappresentate dagli anticorpi monoclonali che, come nel trattamento di altre patologie associate a un malfunzionamento di specifici complessi recettore-ligando, sono in grado di colpire in modo specifico questi recettori e inibirne l’attività. I pazienti in terapia con bevacizumab o ranibizumab, gli anticorpi monoclonali oggi in uso, ottengono risultati significativi, con iniezioni intravitreali mensili. Per ridurre i carico delle somministrazioni, e facilitare la vita dei pazienti che si devono sottoporre alla terapia in modo continuativo, l’ingegneria genetica ha sviluppato il VEGF-trap, non un anticorpo monoclonale ma bensì una proteina di fusione ideata con la tecnica del DNA-ricombinante.

 


“Questo significa che non presenta i seppur rari rischi di reazioni infiammatorie all’interno dell’occhio che possono seguire l’iniezione di altri farmaci attualmente disponibili – spiega Alfonso Giovannini, Direttore della Clinica Oculistica dell’Azienda Ospedaliero-universitaria Ospedali Riuniti di Ancona. – Inoltre nei modelli sperimentali la sua azione di blocco recettoriale risulta 100 volte superiore rispetto a quella osservata con altri farmaci attualmente disponibili. Tenendo così saldamente bloccati i recettori, aflibercept ha una durata d’azione più lunga rispetto ad altre molecole”.

Negli studi clinici finora condotti, la nuova molecola ha dimostrato di agire nell’occhio dei pazienti in modo analogo ai farmaci attualmente a disposizione, con un numero minore di somministrazioni. Dopo una prima fase di trattamento di ‘attacco’, aflibercept può essere iniettato ogni due mesi migliorando in ugual modo le misure anatomiche (riduzione dello spessore centrale della retina, dell’area della lesione con neovascolarizzazione coroideale e del trasudato retinico).
Cosa significa per i pazienti? Fare meno sedute di terapia, che è comunque invasiva, senza rinunciare ai benefici.
“Inoltre il vantaggio di avere un farmaco in più è significativo perché nella cura di questa malattia col tempo possono comparire fenomeni di tachifilassi, ovvero una sorta di abitudine dell’organismo del paziente alla medicina che assume – prosegue Giovannini - Potrebbe quindi rappresentare la soluzione per quei pazienti che già in partenza rispondono poco o in modo insoddisfaciente alle terapie.”
A differenza di quanto erroneamente si pensi, la degenerazione maculare non porta alla cecità completa, perché rimane circoscritta all’aera centrale della retina colpita dalla malattia. Ma non per questo è vissuta in modo meno drammatico dai pazienti. Commenta Francesco Bandello, Direttore della Clinica Oculistica dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, e membro del nostro comitato scientifico: “La degenerazione maculare umida rappresenta una delle patologie oculari che hanno un maggior impatto su chi ne è colpito. Basti pensare solo che nel 30 per cento dei casi si associa a forme depressive che richiedono un trattamento specifico. La malattia colpisce persone anziane, che in molti casi vivono sole e soprattutto sono abituate a rapportarsi con il mondo che le circonda attraverso la visione. Chi soffre di degenerazione maculare rischia di trovarsi improvvisamente escluso dalla propria vita di relazione. Per questo pazienti e oculisti dovrebbero avere un maggior supporto dalle istituzioni e soprattutto sarebbe necessario che tutte le persone conoscessero i rischi di questa malattia e l’importanza di una cura efficace, per controllarla al meglio nel tempo”. Le conseguenze neovascolari della patologia sono poco note, come altrettanto sconosciuta è la prevenzione per accedere a una diagnosi precoce, indispensabile per arrestare la malattia e contenerne l’impatto sulla salute del paziente.

Aflibercept è attualmente un farmaco di fascia C, cioè necessita della prescrizione medica ed è a carico del paziente. E’ in fase di sperimentazione in studi di fase III anche per altre patologie oculari, quali l’edema maculare da occlusione della vena centrale della retina (CRVO), l’edema maculare diabetico (DME) e la neovascolarizzazione coroideale miopica (mCNV).

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