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TORINO - I risultati relativi alla sopravvivenza globale nel cancro metastatico del colon-retto potenzialmente resecabile sembrano favorire un trattamento di prima linea con gli anti-EGFR mAb, gli anticorpi monoclonali diretti contro il recettore del fattore di crescita dell’epidermide. A sostenerlo è un gruppo di ricercatori dell’Istituto di Candiolo e dell’ospedale Umberto I di Torino, in uno studio pubblicato sul Critical Reviews in Oncology/Hematology.

Il cancro del colon-retto è uno dei tumori più comuni in tutto il mondo. Negli ultimi anni il tasso di sopravvivenza dei pazienti con tumori metastatici è migliorato grazie agli sviluppi dei trattamenti medici e chirurgici: i malati hanno potuto trarre benefici da un approccio multidisciplinare per il loro possibile spostamento verso una condizione tecnicamente resecabile, e la scelta del trattamento sistemico più efficace è cruciale per consentire la conversione a resecabilità.

La terapia sistemica di conversione può includere una combinazione di agenti chemioterapici (fluoropirimidina, irinotecan e oxaliplatino), con o senza agenti mirati (cetuximab, panitumumab, bevacizumab). La scelta del miglior trattamento deve essere valutata tenendo in conto le caratteristiche di base, le informazioni biologiche e patologiche, e la strategia chirurgica di ogni paziente.

In particolare, il ruolo di alcune caratteristiche biologiche della malattia, cioè il profilo mutazionale degli oncogeni EGFR, sta emergendo come un importante fattore predittivo di risposta ad agenti mirati. I pazienti che presentano un cancro del colon-retto con metastasi dovrebbero essere valutati con una gestione multidisciplinare, poiché un appropriato regime di chemioterapia può indurre restringimento del tumore, conversione a resecabilità e migliorata sopravvivenza.

Gli studiosi italiani hanno passato in rassegna i dati attuali, concentrandosi su un approccio individualizzato per resecabilità. Anche se l’identificazione di marcatori genetici può guidare la strategia di trattamento e migliorare i risultati, il binario di correlazione tra un gene tumorale mutato e la risposta ad una terapia mirata si sta rivelando più difficile del previsto. Ad esempio, un confronto diretto tra cetuximab e bevacizumab in associazione con FOLFIRI ha mostrato un tasso di risposta globale del 62% per il FOLFIRI-cetuximab, contro il 57% del FOLFIRI-bevacizumab. Per contro, non è stata trovata alcuna differenza nella sopravvivenza libera da progressione.

Il tasso di sopravvivenza globale, tuttavia, ha raggiunto un valore statisticamente significativo a favore del cetuximab (28,8 mesi contro 25,0). Analogamente, il confronto fra bevacizumab o panitumumab con mFOLFOX6 ha mostrato un simile tasso di risposta globale, sopravvivenza libera da progressione e sopravvivenza globale. La scelta preferita di anticorpi monoclonali per una terapia di conversione rimane – concludono i ricercatori – tuttora discutibile e si conferma un campo di ricerca particolarmente promettente.

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