La scrittrice ha raccontato la storia del suo rapporto con la madre nel volume “A spasso con Dory” e in molti si sono riconosciuti nelle sue parole. L’intervista all’autrice
Una figlia costretta a diventare caregiver della propria madre, malata di Alzheimer: non una madre qualunque, ma una madre difficile, impegnativa, troppo spesso insopportabile. “A spasso con Dory”, pubblicato a dicembre dalle edizioni Cleup, è il resoconto di una figlia che prima di trovare un nuovo codice per comunicare con sua madre passa per una gamma di emozioni difficili da digerire: la rabbia, il disorientamento, la perdita definitiva della possibilità di un chiarimento. Prima attraverso il proprio profilo Facebook, poi nelle pagine di un diario, la scrittrice di libri per ragazzi Gigliola Alvisi racconta una storia al tempo stesso personale e universale, quella di una donna che, a causa dell’Alzheimer, si trova a diventare madre della propria madre.
Come nasce l’esigenza di scrivere questo libro? E cosa ha rappresentato per lei affrontare un testo autobiografico?
Quello con mia madre è stato sempre un rapporto difficile, irrisolto. Nel momento in cui era arrivato per me l’improrogabile momento di chiarire, l’Alzheimer mi ha sottratto la possibilità di parlare con mia madre. Scrivere rimaneva l’unico modo per fare i conti con la nostra storia. Inoltre, in quel periodo avevo cominciato a condividere su Facebook dei post in cui parlavo di lei. Molti caregiver si riconoscevano in quei racconti, tanto che quando incontravo qualcuno per strada non mi chiedeva più “Come stai?”, ma “Come sta Dory?”. Così ho deciso di pubblicare un libro, anche se la scrittura autobiografica fino ad allora non era mai stata nelle mie corde. Poi, dopo averlo scritto, ho deciso di donarlo al “Progetto Ora”, che organizza i corsi di caregiver che mi hanno cambiato la vita, permettendomi di vedere un po’ di luce in fondo al tunnel. Insomma, mi sembrava giusto restituire qualcosa.
Quindi c’è un prima, un durante e un dopo. Cosa cambiava nella sua vita mentre scriveva?
Scrivere mi ha costretto a guardare le cose dall’esterno. Poi, quando sono passata dai post al libro, avevo già acquisito uno sguardo retrospettivo: riuscivo a vedere la progressione della malattia di mia madre e il mio cambiamento. Guardando le cose a distanza, potevo distinguere le diverse fasi che ho attraversato come caregiver: all’inizio c’è la rabbia, poi si impara ad adattarsi e si diventa più propositivi nei confronti del malato, imparando a non subirne solo le intemperanze.
Come è riuscita a trovare la giusta distanza?
Grazie alla scrittura ho fatto pace con la storia mia e di mia madre. Scrivendo ho capito che con la malattia di Alzheimer diventa inutile guardare al passato, perché il malato quel passato non ce l’ha più. E non bisogna neppure guardare al futuro, perché non sappiamo quale sarà l’evoluzione della malattia. Bisogna stare nel presente. È una lezione che vale per tutti, non solo per chi si prende cura di un malato. Siamo sempre proiettati nel futuro oppure prigionieri di un passato che sentiamo pesante e opprimente. Invece, i malati di Alzheimer ci obbligano a restare nel qui e ora, a concentrarci su quel preciso momento con loro.
E dopo la pubblicazione del volume?
Il libro ha suscitato molto interesse. Durante le presentazioni, ho visto tante persone commuoversi e dirmi: “Hai raccontato la mia storia”. È come se il libro desse loro il permesso di esprimere la rabbia e la frustrazione che spesso provano come caregiver, perché c’è l’idea che un caregiver debba essere sempre amorevole, generoso e pieno di abnegazione, mentre la realtà è diversa: si sente pieno di rabbia e frustrazione, intrappolato in questo ruolo. Però non è facile dire: “Sono stanco, non ce la faccio più, aiutatemi”. Insomma, il libro ha dato voce a questa parte meno nobile, ma autentica, del prendersi cura di un malato.
Prima ha accennato al “Progetto Ora”. Di che si tratta esattamente?
È un progetto attivo a Padova e Rovigo che si occupa dei malati di Alzheimer e, soprattutto, dei loro caregiver. Perché quando c’è un malato in famiglia, tutta la famiglia si ammala. E se il caregiver non viene supportato, rischia di crollare. Il lavoro di caregiver, di qualsiasi caregiver, può diventare totalizzante e assorbire completamente la vita di una persona.
Ha detto che il Progetto Ora è stata la sua salvezza. In che modo?
Prima di incontrarlo, avevo conosciuto solo i Centri di decadimento cognitivo, con i quali avevo avuto un pessimo rapporto. Sarò stata sfortunata? Non lo so. Però il Centro di decadimento cognitivo a cui mi ero rivolta non prestava nessuna attenzione ai caregiver. Nessuno mi diceva come comportarmi con mia madre, come parlarle, quali strategie adottare. Invece la psicologa del Progetto Ora mi ha dato l’impressione che non solo mi ascoltasse, ma che davvero mi capisse: a telefono era sempre disponibile e quando ci siamo finalmente incontrate di persona, mi sono detta: “Allora non sono completamente da sola, forse c’è qualcun altro”.
Cosa è cambiato quando ha cominciato a frequentare il centro del Progetto Ora?
La psicologa mi ha proposto di seguire un corso dedicato ai figli dei malati di demenza. Eravamo una ventina di persone, per lo più donne, ma non solo. Già il fatto di trovarti con altre persone che hanno lo stesso problema ti fa sentire meno sola. Durante il corso è come se ci avessero fornito i rudimenti di una lingua straniera, che è la lingua in cui comunica il malato di Alzheimer. Solo allora ho cominciato a capire le parole di mia madre. Ho compreso che non dovevo fermarmi al significato letterale delle parole, alla loro esattezza. Per poterla capire dovevo tradurre le sue parole e per farmi capire dovevo tradurre le mie. Capendomi avrebbe smesso di vedermi come una nemica e avrebbe potuto considerarmi un’alleata. Perché fino a quel momento ero stata la figlia che pretendeva troppo da lei: che facesse le cose in un certo modo, che fosse in ordine, che mangiasse. Quando ho cambiato atteggiamento, anche il nostro rapporto è cambiato.
Come ha fatto a cambiare atteggiamento?
Durante il corso ci hanno aiutato a uscire dal ruolo di ‘inquisitore’. Nella fase iniziale i caregiver tendono a incalzare i malati: “Hai fatto?”, “Hai detto?”, “Ti ricordi?”, “Hai preso le medicine?”, “Hai mangiato?”, “Guarda come sei vestito!”. Fanno sentire costantemente l’ammalato sotto esame. Lui sa di avere delle défaillance e cerca in tutti i modi di nasconderle, mentre il figlio o il caregiver continuano a portarlo allo scoperto. In questo modo è inevitabile che i malati ci vivano come quelli che li costringono ad affrontare un esame che non possono superare. Ma quando esci da questo ruolo per diventare un alleato anche loro abbassano le difese, diventano meno aggressivi e cominciano a collaborare.
Qual è la fase più difficile?
Quella iniziale, in cui il malato è ancora nel pieno delle forze e cerca disperatamente di nascondere ciò che si rende conto di aver perso. Questa è anche la fase più pericolosa, perché non chiede aiuto, fa finta di niente, e magari rinuncia a mangiare perché diventa difficile fare la spesa oppure non beve perché se ne dimentica. Poi a un certo punto anche loro si arrendono, diventando più gestibili, e allora è più semplice prendere decisioni al loro posto. Prima, invece, ci tengono a salvaguardare la propria autonomia, la capacità di decidere, la possibilità vivere la propria vita.
Cosa bisognerebbe fare per i caregiver?
La cosa più difficile per un figlio caregiver è sentirsi autorizzato prendere decisioni per il proprio genitore. Come si fa a dire: “Da oggi in poi tu non puoi decidere per la tua vita, decido io?”. È straziante dover diventare i genitori dei propri genitori. Ti chiedi: “Ma io vorrei che gli altri decidessero per me?”. E la risposta è ovviamente che non vorresti. Ci sarebbe davvero bisogno di sostegno in questa fase, invece spesso i caregiver si ritrovano da soli. La loro fatica non è riconosciuta, il loro lavoro rimane nascosto dentro le mura domestiche. Sono fantasmi della società. E questo dovrebbe cambiare.
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