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La scoperta della Vanderbilt University statunitense

Il modo più rapido per determinare l'efficacia dei farmaci sperimentali attualmente in fase di sviluppo per il trattamento della sindrome di Angelman, potrebbe essere il monitoraggio dell’orologio biologico dei pazienti. E’ quanto emerge dallo studio sul ritmo circadiano e la sindrome di Angelman della Vanderbilt University, pubblicato nel mese di febbraio sulla rivista Current Biology, che stabilisce un legame a livello molecolare tra il rallentamento del ritmo cicardiano nel cervello dei pazienti affetti dalla sindrome e i deficit genetici che ne causano la condizione.

I ricercatori hanno studiato la sindrome sul modello murino, riscontrando che i ritmi cicardiani dei topi affetti dalla sindrome erano molto più lenti del normale e molto più facilmente influenzabili dalle condizioni ambientali. Secondo gli studiosi queste caratteristiche possono spiegare i disturbi del sonno di cui soffrono i pazienti affetti dalla Sindrome di Angelman e potranno essere di grande aiuto nella valutazione delle sperimentazioni cliniche per eventuali future terapie.

La sindrome di Angelman è una malattia genetica che interessa più di un soggetto su 15.000 nati vivi e causa ritardi nello sviluppo del cervello, provocando la mancanza di linguaggio, convulsioni, problemi di equilibrio e motilità e disturbi del sonno. Spesso non viene diagnosticata tempestivamente e può essere confusa con un disturbo dello spettro autistico o con la paralisi cerebrale. Attualmente non esiste un modo per trattarla; tuttavia, negli ultimi cinque anni, la ricerca scientifica ha individuato due approcci clinici promettenti, che presto verranno sperimentati, e lo studio sull’orologio biologico potrebbe accelerarne la riuscita.

La patologia è causata dalla mancanza o dal danneggiamento della copia materna di un gene specifico chiamato UBE3A, che normalmente è posizionato sul cromosoma 15. Tale gene svolge un ruolo importante nella regolazione della concentrazione dell’ubiquitina durante lo sviluppo, la quale, a sua volta, controlla una serie di altre proteine. Quando la sua concentrazione è troppo bassa, può causare la sindrome di Angelman. Normalmente, un individuo possiede una copia di UBE3A sia materna che paterna, ma solo quella materna è espressa nel cervello, mentre la copia paterna viene ‘silenziata’. La maggior parte dei casi della sindrome (il 68% per cento) è causata da una ‘grande delezione’, in cui una grossa fetta di DNA che comprende il gene UBE3A non possiede la copia materna del cromosoma 15. L’11 per cento dei casi, invece, è dovuto a mutazioni che disattivano il gene e il 7 per cento si verifica in persone che possiedono due copie del gene paterno. Il resto è dovuto ad altre cause.

I trattamenti in fase di sperimentazione si adoperano proprio ad attivare la copia paterna del gene UBE3A nel cervello. Si sta sperimentando l'uso del Topotecan, un agente chemioterapico. Un’altra via, invece, vuole portare allo sviluppo di un oligonucleotide antisenso, capace di attivare la copia paterna in maniera altamente selettiva.

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