Gli studi procedono e il successo di farmaci come Glybera® e Strimvelis® fa ben sperare. Cruciale sarà lo sviluppo di vettori virali sempre più efficaci e sicuri
Il concetto di terapia genica nasce intorno agli anni ‘70, quando l’idea di usare un vettore specifico per introdurre in un organismo un gene capace di far esprimere una proteina di cui lo stesso organismo risultava carente poteva essere considerata un’operazione tecnicamente fantascientifica. Naturalmente, il sequenziamento del genoma umano e l’avanzamento delle tecnologie nei processi di analisi del DNA hanno fornito la giusta propulsione al motore di una metodologia che ha iniziato a sfornare risultati di estremo interesse, come Strimvelis®, la prima terapia genica ex vivo con cellule staminali per trattare i bambini affetti da 'immunodeficienza combinata grave da deficit di adenosina deaminasi' (ADA-SCID). Il traguardo è stato talmente importante da guadagnarsi l’approvazione alla commercializzazione da parte della Commissione Europea, stabilendo un primato fondamentale nella storia di questa tecnica.
La terapia genica sta trovando campi di sviluppo fertili, specialmente in relazione alle malattie metaboliche rare, dove la correzione di una sequenza genetica innescata da una mutazione è resa possibile dall’inserimento nelle cellule di una versione funzionante del gene che aiuti l’espressione della proteina mancante. Inoltre, le sue applicazioni giungono alla formulazione di vaccini o, in certi casi, alla terapia dei tumori. La terapia genica prevede due modalità di funzionamento: ex vivo, con l’isolamento delle cellule staminali del sangue, che vengono ingegnerizzate e re-infuse nel paziente, producendo nuove cellule funzionanti, oppure in vivo, con l’immissione all’interno di un vettore virale del gene corretto che arriva così direttamente ai tessuti bersaglio.
Tuttavia, come fanno notare Randy J. Chandler e Charles P. Venditti dalle pagine della rivista Translational Science of Rare Diseases, il successo della terapia genica va correlato alla riduzione di eventi avversi di genotossicità, al ricorso a modalità di somministrazione non invasive e, soprattutto, all’assenza di immunità contro il vettore virale usato. Naturalmente, esistono anche modalità di trasferimento del materiale genetico che non richiedono l’uso di virus e che, pertanto, hanno meno possibilità di indurre una risposta immunitaria, sono più semplici da produrre e hanno una maggiore capacità di carico del materiale genetico. Purtroppo, la loro efficienza è di gran lunga inferiore a quella ottenuta ricorrendo a vettori virali. Un po' come la chemioterapia, le cui origini affondano nelle proprietà del famigerato gas mostarda, usato durante la Prima Guerra Mondiale e in grado di distruggere le cellule del midollo osseo, la terapia genica deve necessariamente sfruttare le peculiarità dei virus per sortire effetto: naturalmente, il genoma virale viene rimosso per fare spazio alle sequenze genetiche da usare in chiave terapeutica, aumentando la sicurezza del composto, ma il ciclo vitale e le componenti non strutturali del virus sono tra i punti cardine che favoriscono il ricorso a una tipologia o all’altra per ottimizzare le prestazioni del trattamento.
Per questo è cruciale fare una panoramica delle categorie virali impiegabili sottolineandone le differenze, al fine di capire quale possa essere migliore in relazione al tipo di terapia e alla malattia da combattere.
RETROVIRUS
La caratteristica principale di questa classe di virus è la loro abilità di usare la trascrittasi inversa per trascrivere il proprio genoma da RNA a DNA. Hanno un genoma retrovirale costituito da un singolo filamento di RNA della lunghezza di circa 7-12 kilobasi e un ventaglio di geni (ga, pol, env e pro) che codificano per diverse strutture necessarie alla replicazione. Normalmente, sono responsabili di una molteplicità di condizioni patologiche che spaziano dal cancro all’AIDS fino ai disturbi del sistema nervoso e delle ossa. La loro capacità di integrarsi e replicarsi all’interno del genoma dell’ospite li rende ottimi candidati per veicolare l'espressione a lungo termine dei transgeni, ma le dimensioni del genoma relativamente limitate non permettono di usarli in abbinamento a sequenze nucleotidiche di una certa lunghezza. Inoltre, la loro efficacia sulle cellule somatiche è modesta e il rischio di mutagenesi ad essi correlato è alto. Il loro maggior pregio consiste nella possibilità di sfruttarli per trasdurre le cellule staminali ematopoietiche: i risultati si sono visti specialmente nella terapia della ADA-SCID e della SCID-X1 (Immunodeficienza combinata grave T-B+ legata all'X). In questo caso, i benefici sono stati di vasta portata e si sono mantenuti nel tempo perché sono state reinfuse nel paziente le sue stesse cellule corrette con il gene non mutato. Il principale evento avverso nella terapia delle due malattie sopra elencate è la comparsa di leucemia a cellule T, ma il ricorso a vettori SIN (Self-INactivating) ha aumentato la sicurezza dei trattamenti.
LENTIVIRUS
Questa classe di virus a RNA, similmente ai retrovirus è dotata di una trascrittasi inversa, che permette la sintesi di un filamento di DNA complementare da inserire nel genoma ospite e offre una capacità di carico di 7-12 kilobasi, ma presenta notevoli differenze sul piano del ciclo vitale e del pannello di componenti proteiche accessorie. I lentivirus possono infettare cellule somatiche e germinali e mediare il trasferimento di materiale anche in cellule non in replicazione attiva. Inoltre, tendono ad integrarsi in prossimità degli introni, riducendo la possibilità di trans attivazione dei proto-oncogeni. Tra i vettori basati su lentivirus più studiati figura l’HIV-1, ingegnerizzato con vettori SIN particolarmente efficaci nel ridurre le probabilità di mutagenesi. In diversi studi clinici di Fase I e II è stata dimostrata l’efficacia e la sicurezza di questa categoria virale per il trattamento di patologie come l’AIDS, la beta talassemia, la malattia di Parkinson e l’adreno-leucodistrofia legata all’X (X-ALD). Per quest’ultima è stato realizzato un trial clinico incentrato sul ricorso alla terapia genica ex vivo per fornire una versione funzionante del gene ABCD1 (che codifica per la proteina ALD) con risultati promettenti, paragonabili a quelli del trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche.
ADENOVIRUS
I virus di questo gruppo sono virus a DNA con un genoma della capacità di circa 26-40 kilobasi, decisamente più capiente dei precedenti. Sono in grado di infettare un cospicuo ventaglio di cellule e, dal momento che non si integrano nel DNA dell’ospite, il rischio di genotossicità appare di gran lunga ridotto. Le più recenti versioni ingegnerizzate di questi virus (HDAd, Helper Dependent Adenoviruses) stanno dando ottimi riscontri in termini di espressione transgenica prolungata, riduzione degli episodi di epatotossicità cronica e acuta e diminuzione della risposta infiammatoria. La terapia con immunosoppressori, effettuata prima di iniziare i cicli di trattamento, sembra essere un buon ausilio per evitare i più comuni eventi di tossicità legati al vettore. Il loro principale campo di utilizzo è il trattamento di alcune forme tumorali e la realizzazione di vaccini genetici.
VIRUS ADENO-ASSOCIATI
Rappresentano la categoria più promettente da associare alla terapia genica in vivo. Clinicamente sicuri, efficaci nel transfettare cellule in vivo, capaci di suscitare una risposta prolungata e caratterizzati da un marcato tropismo nei confronti di epatociti, miociti e cellule neuronali, presentano anche un basso grado di immunogenicità. Purtroppo, il genoma virale non supera le 4,7 kilobasi e questo costituisce il principale svantaggio legato al loro utilizzo, dal momento che ogni modifica della loro struttura prevede l’eliminazione di tutte le componenti utili al loro ciclo vitale eccetto le ripetizioni terminali invertite (ITR, Inverted Terminal Repeats). Inoltre, necessitano della presenza di un virus helper coinfettante per integrarsi. Sono stati testati per trattare, ad esempio, pazienti affetti da deficit di ornitina transcarbamilasi e alcune immunodeficienze legate al cromosoma X. Grazie all’alto numero di sierotipi, ognuno in grado di conferire uno specifico tropismo al vettore usato, i virus adeno-associati stanno dimostrando una grandissima efficacia, con livelli di sicurezza tali che la Commissione Europea, nel 2012, ha approvato Glybera®, un trattamento per il 'deficit di lipoproteina lipasi' (LPLD o iperchilomicronemia familiare) basato su cicli di iniezioni del gene per la lipoproteina lipasi veicolato da un AAV di sierotipo 1. Inoltre, sono consistenti i risultati derivanti dall’utilizzo di questa classe di virus per l'elaborazione di una terapia genica che contrasti l’emofilia B.
La terapia genica è una delle più avvincenti frontiere contro le malattie genetiche ma, per aumentarne l’efficienza e ridurre gli svantaggi legati al suo sfruttamento è necessario conoscere a fondo le opzioni con cui armarla: ciò significa studiare le varie classi virali che, come frecce nella faretra di un arciere, sono diversificate per colpire specificamente bersagli eterogenei col massimo risultato.
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