Linee guida

Le attuali linee guida europee non parlano di “sindrome di Lyme post-trattamento”, ma in quelle americane, in corso di aggiornamento, c’è un’apertura verso questa patologia

Nei giorni scorsi, l’Osservatorio Malattie Rare (OMaR) ha intervistato il prof. Ermenegildo Francavilla, direttore dell’Unità Operativa di Malattie Infettive presso l’Ospedale “San Martino” di Belluno, per un approfondimento sulla malattia di Lyme. L’articolo è nato da una lettera ricevuta tempo fa da un gruppo di pazienti: nella missiva, tra le richieste di migliore diagnosi e assistenza vi erano delle informazioni scientifiche che hanno sollecitato la nostra curiosità e ci hanno spinto a un ulteriore approfondimento. Abbiamo quindi deciso di sentire un infettivologo aderente alla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT), e organico in un centro di riferimento per la malattia. L’articolo che ne è seguito, che fa ampio riferimento alle linee guida europee sulla malattia, che poi coincidono nella sostanza con le linee guida del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) del Regno Unito, è stato molto criticato da alcuni pazienti.

OMaR, con la collaborazione dell’associazione Lyme Italia e Coinfezioni, ha organizzato un momento di approfondimento che ha coinvolto il Prof. Maurizio Ruscio, Direttore SC Laboratorio Analisi ASUITs Burlo e Gorizia-Monfalcone, e Presidente del GISML, Gruppo Italiano Studio Malattia di Lyme, e il Prof. Giusto Trevisan, Eminente studioso già Primario della UCO di Dermatologia Venerologia Ospedali Riuniti di Trieste, membro del GISML, entrambi autori di numerose pubblicazioni scientifiche sulla malattia di Lyme.

Al centro del dibattito c’è il fatto che alcuni, da anni, sostengono l’esistenza della “sindrome di Lyme post-trattamento (PTLDS)” - ne avevamo parlato anche noi qui - mentre il prof. Francavilla ritiene che si tratti “di una condizione non riconosciuta che rischia di essere confusa con altre patologie”, come ad esempio la sclerosi multipla. La diatriba nasce perché le linee guida europee non contemplano ufficialmente questa forma e non giustificano l’uso prolungato di antibiotici e, fino a poco fa, era così anche per quelle americane, che risalgono al 2006. Attualmente, però, queste linee guida sono in corso di aggiornamento e secondo il draft a disposizione si sta valutando di includere dei riferimenti a ‘forme croniche’ della malattia di Lyme, anche se non saranno comunque raccomandati trattamenti antibiotici aggiuntivi.

Il dibattito - spiega il Prof. Maurizio Ruscio - nasce probabilmente dall’assenza di una definizione specifica e condivisa di malattia cronica. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la patologia cronica è quella che non si trasmette da una persona all’altra e le cui caratteristiche sono la lunga durata e la progressione solitamente lenta. Per la European Health Interwiew Survey (EHIS), la malattia cronica va più semplicemente riferita alla lunga durata o a problemi di salute che si protraggono per almeno sei mesi. Vari Paesi europei, inoltre, hanno contribuito a complicare il problema, dando ulteriori specificazioni di malattia cronica”.

“Per venire alla malattia di Lyme - prosegue Ruscio - noi sappiamo che presenta, nella fase tardiva, quadri clinici pacificamente definiti cronici, come nel caso dell’acrodermatite cronica atrofica, una manifestazione causata dal persistere dell’infezione borreliosica. Sappiamo tuttavia anche che, una percentuale limitata di pazienti affetti da Lyme, correttamente diagnosticati, presenta sintomi di malattia anche dopo una terapia adeguata. Per definire questa specifica casistica è stata coniata l’espressione di sindrome di post-trattamento della malattia di Lyme (Post treatment-Lyme disease syndrome, PTLDS)”. 

“Tenuto conto delle problematiche connesse alla definizione di malattia cronica – continua il prof. Maurizio Ruscio - è probabilmente improprio o fuorviante definire la percentuale di pazienti che continua a manifestare sintomi della malattia di Lyme, anche dopo la terapia, come pazienti cronici. La sindrome di Lyme post-trattamento comprende infatti un’eterogeneità di situazioni: ci sono pazienti che presentano ancora il batterio, e in questo caso necessita di proseguire la terapia antibiotica, e c’è chi continua a manifestare sintomi perché ha contratto una coinfezione. Ma ci sono anche altre ipotesi attualmente in corso di approfondimento. Secondo alcuni studiosi, il fatto che alcuni pazienti continuino a presentare i sintomi dell’infezione borreliosica potrebbe essere spiegato con un processo di tipo autoimmunitario, innescato dall’infezione. A parere di altri, potrebbe invece trattarsi di una patologia diversa dalla malattia di Lyme in persone positive ai test per la Borrelia burgdorferi. Un’altra teoria, infine, spiegherebbe il permanere dei sintomi con i danni permanenti causati dalla malattia in alcuni organi e distretti dell’organismo, probabilmente a causa di un trattamento tardivo”.

Anche se al momento si tratta di varie ipotesi al vaglio della ricerca scientifica, resta il fatto che la malattia di Lyme si conferma una patologia complessa, che richiede un rilevante impegno, soprattutto sotto il profilo diagnostico. Infatti, in assenza dell’eritema migrante, la manifestazione caratteristica della malattia, la diagnosi deve essere confermata da test di laboratorio che devono essere affidabili, accurati e, soprattutto, correttamente interpretati. “Pur essendo vero – prosegue Ruscio – che oggi si usano metodiche ‘collaudate’ a fronte del progressivo miglioramento della qualità dei kit diagnostici, è altrettanto vero che permangono ancora problemi di standardizzazione dei test legati all’uso di antigeni diversi. Per innalzare progressivamente la predittività diagnostica, resta importante adeguare i test ai diversi ceppi patogeni di Borrelia diffusi sul territorio e, al contempo, lavorare sulla formazione e la comunicazione per una corretta interpretazione dei risultati. Questi due campi di attività – miglioramento continuo dei test e consenso sull’interpretazione dei risultati – sono le due priorità del momento. Consentiranno, infatti, una diagnosi sempre più rapida e accurata, permettendo quindi di accedere tempestivamente ai trattamenti più adeguati”. E prima si accede ai trattamenti, tanto più aumentano le possibilità di contenere i danni sul lungo periodo.

“In alcuni casi, la diagnosi di malattia di Lyme non è semplice, soprattutto quando non si ritrova il tipico Erythema migrans”, conferma il Prof. Giusto Trevisan. “A livello cutaneo, il Borrelial Lymphocytoma, target della Lyme precoce disseminata, richiede un esame istologico, e l’acrodermatite cronica atrofica, target cutaneo della Lyme tardiva, può essere confermata con la biopsia cutanea e la ricerca della Borrelia nel tessuto, anche tramite l’esame culturale in BSK. A livello neurologico, la cosiddetta “neuroLyme” viene definita la grande simulatrice, e richiede la collaborazione con lo specialista neurologo per valutare le diagnosi differenziali”.

Per la gestione dei casi complessi e di alcuni casi difficili, ad esempio di neuroLyme, occorre conoscere a fondo la complessa patogenesi di questa patologia, e per poterla affrontare in modo corretto la strada maestra è quella dei gruppi di ricerca, che in Italia sono presenti e qualificati”, conclude il Prof. Giusto Trevisan. “Ad esempio, il Gruppo di Trieste ha recentemente studiato l’enolasi gamma e l’enolasi di Borrelia afzelii e una loro possibile cross-reattività, mentre il Gruppo del San Gallicano di Roma sta studiando il ruolo del biofilm nella neuroborreliosi. Inoltre, di particolare rilievo risulta la collaborazione con i Veterinari e gli Zooprofilattici, che in questi anni hanno svolto importantissimi studi sulle zecche nelle diverse aree geografiche dell’Italia. Il Dipartimento di Veterinaria di Napoli ha recentemente identificato in alcune zecche a Caserta la presenza di Borrelia afzelii e Borrelia burgdorferi, lo Zooprofilattico di Venezia/Torino ha individuato la presenza, nelle zecche Ixodes ricinus, di Borrelia miyamotoi, agente della febbre ricorrente endemica da zecche dure (HTBRF), mentre di notevole interesse sono gli studi dello Zooprofilattico di Palermo sulla presenza dei microrganismi Babesia e Rickettsia nelle zecche Ixodes, ma ci sono altre realtà italiane che svolgono una preziosa attività di ricerca sulla malattia di Lyme”.

A questo proposito, l’invito che l’Associazione Lyme Italia e Coinfezioni rivolge ai maggiori esperti italiani è di riunirsi in un confronto pubblico che coinvolga tutti gli specialisti che si occupano della malattia di Lyme (infettivologi, neurologi, dermatologi, medici veterinari, ecc.), visto che è una patologia che, per complessità di diagnosi e terapia, necessita del contributo di tutti gli attori in campo, senza tralasciare il fondamentale ruolo della ricerca, che va sostenuta e implementata. È in questo senso che ha sempre operato il GISML che, come ricorda il Prof. Maurizio Ruscio, è ben disposto ad accogliere gli specialisti di tutte le discipline mediche, per produrre almeno una consensus su alcuni punti che sono in discussione, così da offrire ai pazienti maggiori certezze su una corretta diagnosi, anche differenziale, e su un adeguato trattamento.

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