Uno studio condotto da MultiMedica ha dimostrato che la terapia è efficace nello stabilizzare la funzionalità polmonare delle pazienti
Milano – Nintedanib, molecola autorizzata per il trattamento della fibrosi polmonare idiopatica, si dimostra una valida opzione terapeutica anche per la linfangioleiomiomatosi (LAM), patologia rara che colpisce principalmente le donne in età fertile e per la quale, ad oggi, è disponibile un solo farmaco.
A fare la scoperta, da poco pubblicata su The Lancet Respiratory Medicine, un team di ricercatori italiani guidati da Sergio Harari, Direttore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia Semintensiva Respiratoria dell’IRCCS MultiMedica (centro di riferimento nazionale ed europeo per le malattie polmonari rare) e professore di Medicina interna all’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Genetica Molecolare “Romeo ed Enrica Invernizzi”.
La linfangioleiomiomatosi colpisce meno di una persona su un milione. È caratterizzata dalla proliferazione di cellule muscolari lisce atipiche che causano la formazione di cisti aeree nei polmoni, con deterioramento della funzionalità respiratoria. Ha una progressione lenta, portando all’insufficienza respiratoria e a morte. Attualmente, l’unica terapia disponibile, oltre al trapianto polmonare (non indenne da complicanze), è il sirolimus, inibitore dell'enzima mTOR che agisce impedendo la crescita delle cellule della malattia. Si tratta, però, di un’arma spuntata, dal momento che tossicità e resistenza ne limitano l’utilizzo. Con l’obiettivo di individuare una terapia alternativa per le pazienti che non rispondono più al trattamento standard, l’équipe del professor Harari ha concentrato la sua analisi su nintedanib, un inibitore delle tirosin chinasi di derivazione oncologica già impiegato per la fibrosi polmonare idiopatica.
Lo studio di Fase II, in aperto e a braccio singolo, ha coinvolto 30 giovani donne affette da linfangioleiomiomatosi che, nell'ultimo anno, erano andate incontro a declino della funzione polmonare, sottoposte o meno a terapia con sirolimus. Alle pazienti è stato somministrato nintedanib per 12 mesi, seguiti da altri 12 mesi di follow up. Al termine del trattamento, ben tollerato, i ricercatori hanno osservato che la malattia non progrediva e la funzione polmonare si era stabilizzata. Si apre, quindi, lo scenario di una possibile terapia di seconda linea nei soggetti non controllati dal trattamento standard con inibitori di mTOR. Partendo ‘dal letto’ del paziente per svilupparsi in laboratorio e, successivamente, tornare al letto del paziente con risultati rilevanti sul fronte clinico, l’indagine rappresenta un esempio virtuoso di ricerca traslazionale, missione fondamentale degli IRCCS.
“Si tratta del primo studio, dopo il fallimento di molti altri, che offre una concreta nuova opzione terapeutica alle donne affette da linfangioleiomiomatosi”, spiega il professor Sergio Harari. “Siamo giunti a questo risultato grazie a un impegno durato diversi anni, alla collaborazione delle pazienti e allo sviluppo della conoscenza sui meccanismi molecolari alla base della patologia. La scoperta ha non solo positive ricadute cliniche ma permette anche di allargare lo sguardo su nuovi orizzonti di ricerca per trovare una cura definitiva, e non solo una terapia, alla linfangioleiomiomatosi”.
“Siamo orgogliosi di aver contribuito a questo studio importante del professor Harari e il suo team”, afferma il professor Jens Geginat, che guida un gruppo di ricerca all’Istituto Nazionale di Genetica Molecolare Romeo ed Enrica Invernizzi. “È il frutto di una collaborazione pluriennale sulla caratterizzazione molecolare delle cellule LAM, che ha già portato alla pubblicazione di altri articoli scientifici su riviste internazionali in passato e che adesso promette di dare dei risultati ancora più importanti in futuro”.
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