Salvo Anzaldi ha completato i 42 km della celebre competizione, nonostante la malattia e una protesi al ginocchio
“Born to run” canta Bruce Springsteen: la colonna sonora anche di chi, pur non essendo nato per correre, i 42 km della maratona di New York li ha terminati lo stesso. Parliamo di Salvo Anzaldi, giornalista appassionato di calcio e di Bruce Springsteen, appunto, che da quando è nato convive con una malattia rara, l’emofilia, che in teoria lo avrebbe dovuto costringere a una vita tranquilla, lontana da ogni possibile trauma e anche dallo sport. Il 1 novembre del 2015, invece, insieme ad altri quattro amici emofilici (tutti con almeno una protesi di titanio al ginocchio per via della malattia), Salvo, ha tagliato due importanti traguardi: quello della maratona e quello più simbolico, che dimostra come oggi, nonostante tutto, gli emofilici possano condurre una vita normale, grazie anche alle terapie in continua evoluzione.
“Nato per non correre”
La sua storia Salvo l’ha raccontata nel libro “Nato per non correre”, edito da CasaSirio Editore. Una storia di formazione e di rivincita sul proprio destino. “Quel giorno me lo ricordo bene, è stato l’apice di un periodo meraviglioso”, racconta Anzaldi durante la presentazione del libro, lo scorso 13 giugno, a Milano nella sede di Fondazione Telethon. “Tutto è iniziato un anno prima, durante una seduta di fisioterapia, quando ci hanno chiesto se volevamo fare la maratona di New York. Sono stati dieci mesi di allenamenti intensi, in piscina, in palestra e in strada a correre, ma alla fine tutti e cinque abbiamo tagliato quel traguardo. E non era così scontato”.
Finalmente la diagnosi
Anzaldi racconta diversi aneddoti della sua vita, contenuti anche nel libro, dagli anni prima della diagnosi a quelli della terapia. Ricorda che per otto anni i medici non hanno capito che era affetto da emofilia, nonostante i sospetti di sua madre, che aveva già avuto il padre emofilico. La malattia è stata riconosciuta solo quando in seguito a una rottura del dente (“ero in terza elementare e giocavo a fare Tarzan”, afferma sorridendo l’autore) e il flusso di sangue che non si fermava, il padre ha deciso di portare Salvo all’Ospedale Regina Margherita di Torino, dove due medici, che avevano già avuto casi simili, hanno riconosciuto la malattia e lo hanno sottoposto al test di coagulazione. “E' stato un sollievo – afferma Anzaldi – perché finalmente sapevamo di cosa si trattava”. L’emofilia è una malattia genetica rara, dovuta a un difetto del cromosoma X che porta a un malfunzionamento del processo di coagulazione del sangue. Ne esistono due forme principali, la A (più frequente, riguarda circa l’80% dei casi) e la B, in cui rispettivamente manca il fattore di coagulazione VIII e IX. In Italia ne sono affette circa 5.000 persone, di cui oltre 2000 in forma grave.
Cambiare mentalità
Gli emofilici sono esposti al rischio di emorragie a livello di qualsiasi organo, anche spontanee, che se non trattate possono mettere a rischio la sopravvivenza. In queste persone, anche una caduta banale può portare a conseguenze serie. Per questo, in passato non era consigliato fare sport. “Oggi, però, le cose sono cambiate, e anzi lo sport si consiglia sin da piccoli”, sottolinea Luigi Solimeno, Direttore UOC Traumatologia d’Urgenza-Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che ha impiantato la protesi ad Anzaldi. “Abbiamo pensato che l’idea di far correre la maratona a un emofilico che non aveva mai fatto una cosa simile prima, potesse lanciare il messaggio che la malattia sta cambiando. Bisogna cambiare mentalità”.
La pensa così anche Andrea Buzzi, Presidente di Fondazione Paracelso che spera che “la maratona sia un traino sociale per la malattia. Perché uno dei problemi è il suo misconoscimento. In questi anni – continua Buzzi – ai progressi clinici non sono seguiti quelli sociali e relazionali, che possono portare benessere a pazienti e familiari. Invece, bisogna pensare che non è sufficiente la medicina per risolvere tutti i problemi”.
Terapie vecchie e nuove
Se negli anni ’70 l’emofilia si poteva controllare grazie all’assunzione periodica dei fattori mancanti ottenuti dal sangue di donatori (non senza conseguenze per via dei plasmaderivati infetti, come ricorda lo stesso Anzaldi) oggi esistono fattori prodotti per via biotecnologica, che hanno ridotto anche il numero di iniezioni necessarie. Ma l’obiettivo finale dei ricercatori è curare la mattia e sviluppare una terapia genica per farlo. L’idea è somministrare una versione corretta del gene che codifica per il fattore di coagulazione mancante, attraverso una versione modificata di un virus, che funga da vero e proprio “cavallo di Troia”. In questo modo, il virus, che ha la capacità di penetrare nelle cellule, una volta somministrato per via endovenosa, potrebbe arrivare fino al fegato, portando l’organo a produrre la proteina mancante e a distribuirla a tutto l’organismo.
Terapia genica: qualche passo avanti
Oggi la terapia genica è in fase di sperimentazione clinica in diversi Paesi del mondo per entrambe le forme di emofilia, tramite l’uso di vettori virali adeno-associati, con buoni risultati in termini di sicurezza ed efficacia nel ripristinare l’attività del fattore mancante. Presenta, però, dei limiti: il primo è che non è efficace in età pediatrica, perché il fattore non si integra e viene 'diluito' con la crescita; il secondo è che una fetta significativa di pazienti ha anticorpi pre-esistenti che sono diretti contro il virus originale e che ne neutralizzano l’effetto. Come ricorda anche Lugi Naldini, direttore dell’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget), i lavori sono tuttora in corso: “Per l’emofilia B, dove il gene è più facile da sostituire, oggi con una somministrazione abbiamo un controllo sostanziale per diverso tempo. È una risposta parziale ma promettente e ora aspettiamo che la terapia arrivi in commercio, speriamo a breve. Mentre per l’emofilia A è più complesso, perché il fattore IIIV è più grande e difficile da veicolare; inoltre è poco stabile, ma ci stiamo lavorando”.
Un nuovo studio
Proprio nei giorni scorsi, il gruppo guidato da Naldini ha pubblicato uno studio su Science Translation Medicine, su un diverso tipo di vettori, i cosiddetti lentivirali (derivati dal virus HIV), che si spera possano risolvere i limiti attuali. Nella ricerca – che segue altri promettenti studi preclinici – i ricercatori hanno dimostrato l’ulteriore perfezionamento di questi vettori, che riescono a evitare l’attacco delle cellule del sistema immunitario presenti nel fegato, sono ben tollerati e possono trasferire il gene terapeutico in modo efficiente. “Abbiamo modificato la superficie dei vettori lentivirali in modo da renderli resistenti alla cattura del sistema immunitario”, spiega Alessio Cantore, ricercatore dell'Istituto San Raffaele e primo autore dello studio. “Questo studio è un passo avanti importante perché dimostra efficacia e sicurezza del vettore”. Ora si aspetta la partenza di uno studio clinico, condotto in collaborazione dall'istituto SR-Tiget e dal Policlinico di Milano, per valutare efficacia e sicurezza di questa terapia genica nei pazienti affetti da emofilia.
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