Saverio Bisceglia (Presidente A-NCL), in occasione del convegno 'Avrò cura di te', parla degli ostacoli che devono affrontare le famiglie colpite da ceroidolipofuscinosi
Le famiglie con un bambino o un ragazzo affetto da ceroidolipofuscinosi neuronale assistono al suo graduale peggioramento, che comprende i disturbi dell'apprendimento, la compromissione del linguaggio e il declino delle capacità cognitive, a ciò seguono la perdita della vista, le crisi epilettiche e le difficoltà motorie, con la perdita dell'uso degli arti e della masticazione. “Si tratta di una sequenza più o meno rapida (a seconda della variante) di perdite funzionali difficili da sostenere per le famiglie, che, oltre all'aspetto psicologico, devono affrontare una serie di interventi medici”, spiega Saverio Bisceglia, presidente dell’Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi (A-NCL).
Nonostante questo, negli ultimi anni la situazione complessiva della patologia è notevolmente migliorata. Rispetto a una decina di anni fa, infatti, le ceroidolipofuscinosi iniziano ad essere conosciute e diagnosticate con maggior rapidità.
“Per la diagnosi e la gestione della malattia ci sono pochi centri di riferimento. A seconda della residenza della famiglia, si cerca di individuare una figura di riferimento non troppo lontana, ma la presa in carico globale può essere espletata solo in pochi centri specialistici, quali l’Istituto Carlo Besta di Milano, l’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, il Policlinico Universitario di Verona e l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma. L’epilessia e aspetti delicati nelle fasi più avanzate della malattia, di solito vengono gestiti nei centri di riferimento, spesso distanti dal luogo di residenza del paziente”, racconta Bisceglia.
Essendo malattie rare neurodegenerative, le ceroidolipofuscinosi si caratterizzano per lo sviluppo di un quadro clinico complesso, che richiede spesso un'esperienza medica pluri-specialistica consolidata nel tempo. “I presidi attualmente utilizzati, la gastrostomia percutanea e la tracheostomia, hanno portato un miglioramento della qualità della vita del paziente”, precisa Bisceglia. I dati emersi durante l’ultimo convegno indetto dall’Associazione Nazionale Ceroidolipofuscinosi hanno confermato un allungamento medio della vita dei bambini colpiti da questa malattia rara.
“È chiaro che la gestione è difficile se la famiglia si trova lontano dal centro di riferimento. Tuttavia, ci sono colleghi sensibili che hanno sviluppato attenzione nei confronti della malattia e che cercano di capire come intervenire per quegli aspetti che possono essere trattati anche nei luoghi di residenza. Meno raccomandabile è talvolta l’atteggiamento di quei medici che trattano le complicanze della malattia senza confrontarsi con i colleghi di riferimento, usando le normali conoscenze per affrontare problemi in cui l'esperienza è essenziale”, racconta Bisceglia.
La concentrazione dei casi in pochi centri nazionali permette lo sviluppo di 'expertise' di alto livello, ma di contro sfavorisce le famiglie lontane da queste strutture. “La situazione italiana riflette quella europea. Del resto, non sarebbe economicamente sostenibile pianificare un centro per ogni regione: il numero di pazienti non giustificherebbe una spesa di questo tipo. Credo però nella possibilità di individuare alcune figure in ambito ospedaliero, specie nei reparti di neurologia, pneumologia e gastroenterologia, che sono quelli maggiormente coinvolti per le ceroidolipofuscinosi, che siano in grado di gestire l’ordinario, grazie per esempio ad alcuni corsi che potrebbero essere tenuti nei centri specialistici di riferimento. Sarebbe così possibile gestire a livello periferico le problematiche meno complesse e diminuire i disagi delle famiglie legate agli spostamenti”, continua Bisceglia.
L’autonomia regionale, nell'area delle cure, costituisce un problema: c’è troppa diversità di trattamento nell'assistenza domiciliare e nel sostegno alle nostre famiglie. “Non è possibile che una malattia rara e grave come la ceroidolipofuscinosi venga gestita a livello regionale o comunale, bisogna operare con protocolli e tutele uniformi su tutto il territorio nazionale. Voglio fare un esempio esplicito: in Toscana abbiamo una famiglia che ha la fisioterapia domiciliare un'ora due volte alla settimana, mentre in altre regioni tutti i giorni. Nelle cure domiciliari, nelle ore di assistenza e nel sostegno alla famiglia, c'è una disomogeneità inspiegabile, come se malattia si modifichi a seconda della regione o del comune in cui si manifesta. In questo ambito speriamo di trovare una maggiore comprensione da parte delle Istituzioni locali e nazionali”, conclude Bisceglia.
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