La seconda edizione del Rapporto sulla consapevolezza del cancro colo-rettale promossa da BGI Genomics ha messo in rilevo le difficoltà di accesso ai programmi nazionali di screening
I programmi di screening oncologico rappresentano una delle più nitide conquiste della medicina e, nel corso degli anni, hanno contributo a contenere il numero di nuovi casi e di decessi dovuti a patologie tumorali estremamente diffuse, quali il tumore della mammella, della cervice uterina e del colon-retto. Quest’ultimo, in particolare, costituisce la terza più comune forma di tumore al mondo e la seconda causa di morte correlata al cancro. Ma se negli anni la curva di incidenza del tumore del colon-retto si è abbassata il merito è da attribuire ai programmi di screening attivati - seppur con diverse modalità - dai sistemi sanitari di varie nazioni. Per potenziare tali strumenti e ridurre ulteriormente l’impatto della malattia, BGI Genomics ha pubblicato la seconda edizione del Rapporto sulla consapevolezza del cancro colo-rettale, coinvolgendo quasi due mila persone provenienti da vari Paesi del mondo.
LO SCREENING ONCOLOGICO PER IL TUMORE DEL COLON-RETTO
In accordo con gli ultimi dati AIRTUM, in Italia il tumore del colon-retto costituisce la terza neoplasia (dopo il tumore alla prostata e al polmone) a maggiore incidenza tra gli uomini e la seconda (dopo il cancro della mammella) nelle donne. Si stima che ogni anno tra la popolazione italiana siano oltre 50mila le nuove diagnosi e poco meno della metà i decessi, a conferma che si tratta di una neoplasia con un impatto tale da giustificare l’avvio di un programma di screening oncologico che, in Italia, si rivolge a uomini e a donne di età compresa tra 50 e 69 anni, a cui è suggerita l’esecuzione, con cadenza biennale, di un test per la ricerca del sangue occulto nelle feci o di una retto-sigmoidoscopia, da eseguire almeno una volta nella vita a tutti coloro che sono compresi nella fascia d’età tra 58 e 60 anni.
Purtroppo in tempi recenti, complice anche la pandemia di COVID-19, l’aderenza ai programmi di screening oncologico ha subito un calo che deve essere assolutamente recuperato, non solo con rinnovate campagne di informazione ma anche con una seria valutazione delle criticità e delle lacune dei programmi, in modo tale da migliorarli e raggiungere un numero crescente di individui.
I RISULTATI DEL RAPPORTO SULLA CONSAPEVOLEZZA DEL CANCRO DEL COLON-RETTO
Dopo il successo della precedente edizione, giunto al secondo anno, il progetto sostenuto da BGI Genomics ha raccolto il punto di vista di 1.938 persone di età superiore a 35 anni provenienti da Brasile (306), Cina (367), Polonia (300), Arabia Saudita (300), Thailandia (362) e Uruguay (303) e ha messo in evidenza alcuni aspetti che meritano accurata riflessione. In primo luogo è emerso che poco meno della metà (49,3%) delle persone intervistate non si è mai sottoposta a uno screening per la ricerca del cancro al colon-retto, un dato preoccupante, che riflette una significativa lacuna nella consapevolezza e nell’accessibilità ai programmi di screening, fondamentali per la diagnosi precoce e la prevenzione di questo tipo di tumore.
Infatti, nella patogenesi del cancro al colon-retto intervengono sia fattori genetici che ambientali ma è ormai universalmente accettata l’insorgenza a partire da polipi neoplastici benigni (la nota sequenza adenoma-carcinoma) che, col tempo, crescono nelle dimensioni e tendono a sanguinare: motivo per cui uno dei test più comunemente utilizzati nello screening è quello della ricerca del sangue occulto nelle feci. A tal proposito un secondo elemento emerso dal sondaggio è legato alla preferenza della popolazione per questo genere di test rispetto alla colonscopia (che però è più accurata e, in certi casi, permette l’escissione dei polipi): ciò suggerisce di considerare metodiche di analisi più semplici e meno invasive. E anche meno costose. Paesi come l’Uruguay o la Cina prediligono test dal costo più modico a un intervento come la colonscopia, che in molte persone (circa il 18,2% degli intervistati) suscita un certo timore.
Inoltre - e questo è un aspetto positivo - è emerso il ruolo del medico di famiglia, la cui raccomandazione rimane il principale meccanismo di avvio del paziente verso lo screening (per circa il 30,5% degli intervistati). Infine, si riscontra una maggiore adesione ai protocolli di screening da parte di coloro che hanno una storia familiare di cancro del colon-retto (64,5%), rispetto alla popolazione generale (35,0%).
LE DIFFERENZE TRA I VARI PAESI E I MESSAGGI CHIAVE DA TENERE IN CONSIDERAZIONE
Secondo una ricerca pubblicata su BMC Cancer il tasso di mortalità per cancro del colon-retto nei Paesi ad alto reddito è inferiore a quello dei Paesi a basso reddito non solo per la più estesa copertura offerta dallo screening, ma anche per le differenze in termini di risorse sanitarie e strutture mediche a disposizione del cittadino. In questo si riflette anche la crescente attenzione nei confronti delle sindromi ereditarie - tra cui la poliposi adenomatosa familiare o la sindrome di Lynch - che conducono allo sviluppo di un elevatissimo numero di polipi predisponendo l’insorgenza di neoplasie colo-rettali: la maggiore adesione ai protocolli di screening da parte di coloro che, in famiglia, hanno già avuto a che fare con il cancro del colon-retto mette in luce il robusto livello di consapevolezza delle famiglie e suggerisce di abbassare la soglia di età dei famigliari a 40 anni, o almeno dieci anni prima della prima diagnosi di cancro del colon-retto apparsa in famiglia.
La particolare suscettibilità al tema del cancro colo-rettale deve esser condivisa anche con la popolazione generale non solo innalzando il livello di informazione sulla malattia - il 47,4% degli intervistati ritiene che le informazioni disponibili non siano sufficienti e il 40,4% non ritiene o dichiara di non essere a conoscenza se questo tumore possa essere individuato attraverso uno screening precoce - ma offrendo anche modalità di screening efficaci in termini di qualità per il cittadino e costi per il Servizio Sanitario nazionale.
I TEST PER LA RICERCA DEL SANGUE OCCULTO
Rispetto alla colonscopia e alla retto-sigmoidoscopia, il test per la ricerca del sangue occulto nelle feci (FOBT, Fecal Occult Blood Test) è molto più pratico e meno invasivo: non prevede una preparazione specifica e si limita alla raccolta di un modesto campione fecale da stemperare in un contenitore contenente un conservante che permette successivamente la ricerca dell’emoglobina nelle feci. Purtroppo, il limite di quest’analisi - che si suggerisce di eseguire su tre campioni raccolti in giorni successivi dal momento che il sanguinamento dei polipi tende a esser intermittente - è la specificità, dal momento che le tracce ematiche evidenziate potrebbero essere confuse con quelle provocate da ulcere, polipi benigni o emorroidi. Tuttavia il costo modico di questi strumenti e l’ansia di una ampia fetta della popolazione nei confronti della colonscopia hanno contributo ad aprire un fronte di discussione legato ai test di screening fecali.
Di recente, infatti, è stato sviluppato un test per l’individuazione del DNA delle cellule cancerose presenti nelle feci. Si tratta di una tecnica nuova, con un robusto livello di specificità, che alcuni Paesi - come gli Stati Uniti - hanno già raccomandato di inserire nei protocolli di screening per questa patologia. In Italia questo passaggio non è stato ancora fatto ma la discussione circa l’utilità del test - specie per i pazienti già risultati positivi al FOBT - è aperta e potrebbe costituire un punto di forza decisivo per aumentare ancora il livello di copertura dello screening.
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