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DLBCL: intervista al dottor Michele Merli

Dottor Michele Merli

Tra nuovi regimi di chemioterapia, CAR-T e vari farmaci immunoterapici, sono molteplici le opzioni di trattamento oggi a disposizione dei pazienti

Segni particolari: raro e aggressivo. La carta d’identità del linfoma diffuso a grandi cellule B (DLBCL) restituisce un tipo di tumore tutt’altro che benigno. Per fortuna negli ultimi anni il bagaglio di conoscenze su questo linfoma si è di molto allargato e, grazie alla ricerca, un nuovo schema terapeutico è stato introdotto nella pratica clinica e sta incrementando la sopravvivenza senza tumore dei pazienti. È un risultato di valore che, al di là delle emergenti terapie avanzate, invita a non perdere fiducia nella chemioterapia quale principale opzione nella al DLBCL.

I SINTOMI

In quarant’anni la medicina ha compiuto enormi balzi avanti nella cura dei linfomi non-Hodgkin, categoria di tumori a cui appartiene anche il linfoma diffuso a grandi cellule B, aumentando i tassi di sopravvivenza e restituendo ai malati una qualità di vita più elevata. La direzione di questo viaggio è stata tracciata dalla biologia dei linfomi, che medici e ricercatori hanno esplorato e sviscerato nei dettagli anche per merito dell’innovazione in genetica e biologia molecolare.

I linfomi sono un gruppo molto eterogeneo di neoplasie e il DLBCL è il tipo istologico più frequente, giungendo a rappresentare quasi un terzo di tutti i linfomi non-Hodgkin dell’adulto”, spiega il dott. Michele Merli, della S.C. di Ematologia presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. “Tipicamente i pazienti affetti presentano un ingrandimento dei linfonodi (in gergo medico si chiama linfoadenopatia) latero-cervicali, ascellari e inguinali, oppure in sedi extranodali quali stomaco, polmone, mammella o testicolo. Perciò, il tratto distintivo del DLBCL è legato alla compressione degli organi interni da parte di queste masse, con possibili problematiche di infiltrazione tumorale”. All’esame obiettivo il paziente può riportare sintomi sistemici abbastanza generici, quali dimagrimento, profuse sudorazioni notturne, una febbricola non motivata da infezione e astenia. Tale corteo sintomatologico deve indurre il medico di medicina generale a prescrivere alcuni esami di accertamento sulla base dei quali inviare il proprio assistito all’ematologo.

LA DIAGNOSI

Tra gli esami del sangue suggeriti per la diagnosi del DLBCL figurano l’emocromo, il dosaggio della lattico deidrogenasi (LDH) e della beta-2-microglobulina (B2M). Occorre poi valutare la funzionalità epatica (AST, ALT, GGT) e renale (creatinina e azotemia), aggiungere un’elettroforesi delle proteine e, infine, il pannello degli esami virologici (epatite B e C e HIV). “Gli esami strumentali di supporto nell’inquadramento del problema sono la tomografia computerizzata (TC) e, soprattutto, la tomografia a emissione di positroni/tomografia computerizzata (PET/TC) con 18F-FDG, che ha una maggiore sensibilità diagnostica e sta gradualmente rimpiazzando la sola TC”, precisa Merli.

Gold standard diagnostico si conferma essere la biopsia del linfonodo, tramite cui si raccoglie il materiale necessario per l’analisi istologica; da qui ha inizio il lavoro necessario a identificare i diversi sottotipi di tumore e ricavare informazioni prognostiche necessarie per orientare la terapia”, precisa il dottor Merli. Infatti, come ben descritto in un articolo pubblicato sulla rivista medica The New England Journal of Medicine, per un’accurata classificazione del linfoma è necessario svolgere test di immunoistochimica per la ricerca di antigeni specificamente espressi dal tumore. Sono inoltre fondamentali, dal punto di vista prognostico e anche per la selezione della terapia, le tecniche di citogenetica molecolare FISH (Fluorescence In Situ Hybridazation) con cui cercare eventuali riarrangiamenti cromosomici (geni MYC, BCL2 e BCL6). Sta inoltre sempre più emergendo il ruolo di analisi molecolari per lo studio di mutazioni, come quella del gene TP53, o di combinazioni di geni con cui stabilire in maniera precisa il sottotipo genetico del tumore.

LA STADIAZIONE

Una volta compilata la “carta d’identità” del linfoma si procede con la stadiazione, cioè il processo che consente di valutare l’estensione della malattia e suddividere i pazienti sulla base del percorso terapeutico più adatto ad aggredire la neoplasia. “In base ai profili di espressione genica, i DLBCL sono stati divisi in due sottotipi: germinal center B-cell-like (GCB) e activated B-cell-like (ABC)”, aggiunge l’esperto milanese, che precisa come, pur portando la stessa etichetta di linfoma, queste due tipologie di tumore abbiano origine da differenti stadi di maturazione della cellula linfoide e progrediscano, perciò, sulla base di diversi meccanismi oncogenetici. “il sottotipo ABC, ad esempio, ha una prognosi pessimistica ed è caratterizzato dall’espressione di fattori di trascrizione come NFkB e di geni come MYD88. In una parte dei linfomi ad alto grado è anche possibile trovare una combinazione di traslocazioni dei geni MYC e BCL2, associata a una prognosi peggiore rispetto ai geni non riarrangiati”. Confrontando il profilo d’espressione genica tipico del tumore con i sistemi di classificazione per il DLBCL [ne esistono due, la quinta edizione della classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’International Consensus Classification, N.d.R.] si trae una valutazione di rischio definita dal punteggio IPI (International Prognostic Index), uno strumento essenziale per capire se il DLBCL sia di grado basso, intermedio o alto, e per stilare così le conclusioni necessarie a selezionare le molecole e gli agenti terapeutici più adeguati contro di esso.

IL TRATTAMENTO

La risposta al trattamento, la probabilità di sopravvivenza globale e quella libera da progressione sono i tre parametri principali per stabilire l’efficacia della terapia scelta che, classicamente, è data da più ripetizioni (fino a 6 cicli) dello schema R-CHOP, in cui si abbina rituximab a un cocktail di farmaci (ciclofosfamide, doxorubicina, vincristina e prednisone).

“Da pochi mesi, l’aggiunta dell’anticorpo farmaco-coniugato (ADC) anti-CD79b polatuzumab-vedotin ha cambiato lo schema terapeutico”, dichiara Merli. “Infatti, i risultati dello studio di Fase III POLARIX, pubblicati sempre su The New England Journal of Medicine, hanno dimostrato che la percentuale di pazienti con DLBCL di grado intermedio-alto o alto senza progressione di malattia era significativamente maggiore nel gruppo dei trattati con lo schema Pola-R-CHP anziché con R-CHOP. Si tratta di una novità importante nella prima linea di trattamento, specialmente per quanti non rispondono alla terapia con R-CHOP (fino a circa il 40% dei pazienti)”. La presenza di fattori di prognosi infausta, come le localizzazioni al sistema nervoso centrale, richiedono schemi di chemioterapia maggiormente intensivi con l’alternanza di altre molecole.

“Al termine del trattamento si esegue una PET/TC di rivalutazione e i pazienti che non hanno risposto, o quelli in cui, a distanza di un anno, sia comparsa una recidiva del tumore, hanno indicazione per sottoporsi alla terapia con CAR-T”, afferma Merli. “Attualmente le CAR-T sono state portate in seconda linea e rappresentano uno standard per tutti pazienti al di sotto dei 75 anni in assenza di comorbidità gravi”.

Fino a non molto tempo fa la seconda linea di trattamento era costituita dalla chemioterapia ad alte dosi e dal trapianto di autologo midollo osseo, soluzione rimasta in essere per una ristretta nicchia di pazienti in cui la recidiva del tumore si presenta tardivamente. “Rispetto al passato, oggi le prospettive di cura del DLBCL sono migliorate”, riprende Merli. “Le CAR-T e le terapie mirate, dall’immunoterapia fino agli anticorpi bispecifici, stanno incrementando le possibilità di guarigione persino dalle forme più aggressive del tumore”.

Ma cosa accade se un paziente con più di 75 anni (l’età mediana di insorgenza del DLBCL è di 60 anni) sviluppa una recidiva dopo il trattamento di prima linea? “In questo caso la seconda linea è composta da farmaci come tafasitamab in combinazione con lenalidomide, o rituximab più bendamustina in combinazione con polatuzumab (se questo non è già stato scelto in prima linea)”, precisa Merli. “Per i pazienti già trattati con due o più linee terapeutiche sono disponibili gli anticorpi bispecifici come glofitamab ed epcoritamab, recentemente approvato dall’AIFA. Entrambi producono risposte complete e durature in circa il 40% dei pazienti, compresi quelli che recidivano dopo le CAR-T. Altro farmaco degno di nota è loncastuximab tesirine, formato dalla combinazione di un anticorpo anti-CD19 e da una molecola citotossica che può così essere indirizzata in maniera specifica sulle cellule tumorali, risparmiando quelle sane”.

Le terapie avanzate, fra cui le CAR-T, e gli anticorpi bispecifici sono novità recenti grazie alle quali i programmi di cura di linfomi come il DLBCL stanno cambiando in maniera radicale, per offrire possibilità di guarigione anche a quanti sono colpiti da forme tumorali aggressive o resistenti ai trattamenti, o a coloro che sviluppano recidive di malattia. Per tutte queste persone la guarigione non è più un miraggio lontano ma un’opportunità concreta.

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