“Non c’è un medico che abbia una visione globale della malattia. La responsabilità la sento tutta sulle mie spalle”
Cecilia ha 25 anni ed è una delle ragazze che hanno recentemente deciso di scrivere e firmare una lettera per far conoscere al mondo la malattia con cui convivono: due pagine di testo in cui vengono denunciate tutte le maggiori difficoltà che le pazienti affette da vulvodinia devono affrontare ogni giorno. Sebbene non se ne senta parlare quasi per nulla, la vulvodinia è una patologia che si stima colpisca una donna su sette, circa il 15-16% della popolazione femminile. Si tratta di una sindrome multi-fattoriale fortemente invalidante, che rientra nelle cosiddette allodinie, condizioni essenzialmente caratterizzate dalla comparsa di dolori associati a stimoli normalmente innocui.
La vulvodinia colpisce gli organi genitali femminili e si manifesta con bruciore e dolore cronico che compare soprattutto durante la minzione o i rapporti sessuali. La forma di vulvodinia più frequente, che interessa circa l'80% dei casi, è quella localizzata al vestibolo vaginale, definita vestibolite vulvare o vestibolodinia. Nelle forme più severe, la malattia provoca dolori molti intensi, spesso descritti come scosse elettriche, punture di spillo o coltellate, e può comportare vere e proprie lacerazioni della cute e delle mucose coinvolte.
La vulvodinia è una condizione molto diffusa, ma anche molto taciuta dalle donne stesse, per imbarazzo o per un senso di sfiducia legato all'aver tentato diversi approcci terapeutici non andati a buon fine. Cecilia, però, ha deciso di rompere questo silenzio e di raccontare a OMaR la sua storia.
“Tutto ha avuto inizio due anni e mezzo fa, quando ho cominciato ad avvertire bruciore durante i rapporti sessuali. Nel giro di due mesi, questo bruciore si è intensificato, ed è diventato così forte da non riuscire più ad avere una vita sessuale. Aumentando, ha cominciato ad essere onnipresente, anche per tutta la giornata. Mi sono recata dalla ginecologa, che mi ha fatto fare diversi tamponi e mi ha prescritto degli ovuli, ma la situazione non è migliorata: insomma, non abbiamo concluso niente. La dottoressa, quindi, mi ha sottoposto allo ‘swab test’, che – spiega Cecilia – è il test usato per diagnosticare la vulvodinia (anche se in realtà alla diagnosi si arriva più per esclusione): si effettua applicando una leggerissima pressione su alcuni punti precisi del vestibolo e della vulva, per verificare la sensibilità di quest’area e valutare se sia presente una risposta dolorosa esagerata rispetto allo stimolo applicato. Sono risultata positiva, ma la dottoressa mi ha specificato che per avere la conferma diagnostica avrei dovuto manifestare questi dolori per 6 mesi consecutivi; inoltre, mi ha spiegato che lei stessa non era molto ferrata sulle possibili cure per questa patologia. Col passare dei mesi, la mia situazione diventava sempre più difficile da sopportare, così ho cambiato ginecologa, che sì, mi ha parlato della vulvodinia, ma relegandola ad un problema completamente psicologico, e come terapia mi ha proposto delle creme che non sono servite assolutamente a nulla”.
“Ero spaesata – racconta Cecilia – ma dopo 5-6 mesi ho avuto la fortuna di incontrare alcune donne informate sulla patologia: ho trovato un forum in Internet, un’associazione che indicava alcuni medici specializzati. Dopo 8-9 mesi, mi sono rivolta ad un’ostetrica e osteopata di Torino, che mi ha confermato la diagnosi e mi ha dato alcuni utili consigli, sia comportamentali che terapeutici: mi ha prescritto degli integratori e mi ha aiutato a migliorare anche il mio equilibrio intestinale, che influisce sulla patologia. Dare un nome e un volto alla mia malattia è stato positivo. Però, dall’altra parte, mi è stato chiaro che le cure sarebbero state lunghissime e la guarigione incerta: dal punto di vista psicologico, tutto ciò mi ha messo in grande difficoltà. Ad esempio, essendo stata ammessa al progetto Erasmus, sono stata a lungo combattuta nel decidere se partire o no, perché la vulvodinia limita fortemente la vita quotidiana: alla fine, a malincuore, ho dovuto rinunciare”.
“Oggi - prosegue Cecilia - sono costretta ad applicare continuamente gel e creme, oltre a fare spesso un automassaggio all’ingresso della vulva, per sciogliere i muscoli contratti del pavimento pelvico; devo stare attenta all’alimentazione, e il bruciore frequente, se non continuo, mi condiziona molto: spesso compare senza preavviso, o dopo qualunque piccolo stimolo, ad esempio restando seduta per più di 15-20 minuti, e per farlo passare devo per forza alzarmi e camminare… una situazione simile rende difficoltoso anche il semplice studiare. Mi sono rivolta a numerosi medici e professionisti sanitari e ho provato terapie inefficaci, con effetti collaterali poco piacevoli. Non esiste un trattamento che funzioni per tutti i pazienti: qualche farmaco, però, mi è stato di aiuto. Da circa un anno sto leggermente meglio, ho meno problemi a stare seduta, ma non riesco ancora ad avere rapporti sessuali. Andando avanti con il tempo, quando non si vedono miglioramenti - conclude Cecilia - una condizione come questa diventa sempre più pesante, soprattutto quando penso ad un futuro così incerto: non so se riuscirò a guarire, e sono io che devo farmi carico delle spese, dato che la vulvodinia non è una patologia riconosciuta; sono io che devo arrangiarmi per le cure, e per trovare un esperto che mi sia di aiuto. Questo è il problema maggiore: trovare una figura professionale che accompagni il paziente nel suo percorso, perché ogni dottore ‘dà il suo pezzettino’, ma non c’è un medico che abbia una visione globale della vulvodinia. La responsabilità della malattia la sento tutta sulle mie spalle, ed è questa la cosa più frustrante”.
Seguici sui Social